Non vi fidate di Ipazia Preveggenza Tecnologica

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Oreste Grani
view post Posted on 19/8/2012, 21:09 by: Oreste Grani





Ora, ripugnante Amalek, cominciamo a ballare.
Quando il 18 giugno 2012 scrivevo “In questi anni ed in particolare negli ultimi venti sono stato tra quelli che hanno sostenuto, non avendo una generica finalità di criticare i Servizi Segreti Italiani, l’urgenza di nuove prassi e metodologie per migliorarne l’efficacia con la piena soddisfazione di tutti” anticipavo quanto, in altro modo e con finalità propositive, ora scrivo di seguito.

Quando, il 23 marzo 2012, nella Sala delle Colonne alla Camera dei Deputati, noi di Ipazia Preveggenza Tecnologica accogliemmo 100 ospiti tra i più preparati nel campo dell’intelligence, ho sperato che fosse arrivato il tempo per mettere a frutto gli sforzi compiuti per dare un contributo alla nascita di uno Stato Intelligente capace di utilizzare i finanziamenti europei per l’innovazione e per la sicurezza.

Come si può dedurre da quanto scritto fino adesso avevo preparato l’esordio pubblico, in un luogo istituzionale, con la massima cura, e aiutato, in modo determinante, da una squadra, sia pur esigua, di collaboratori che mi sento di definire, nonostante tutto quello che è accaduto fra di noi, un manipolo di eroi.

Anni prima, per l’esattezza il 23 maggio del 2006, in accordo con E. B., avevo rafforzato il pensiero già espresso nel documento “Ubiquità, ovvero la dimensione necessaria di un’Intelligence culturale” redatto nel dicembre del 2005 con nuove considerazioni che chiamammo Ubiquità2 sulla necessità di una riforma, in senso culturale, dei così detti servizi scrivendo: “Viviamo in un pianeta globalizzato. Una frase ricorrente, divenuta ormai banale, svuotata di significato proprio dal suo impellente ricorrere. Eppure, una frase densa di implicazioni sociali e politiche imprescindibili, anche per una riforma del sistema di informazione e sicurezza, cioè, per la riorganizzazione dell'Intelligence.

La globalità come fenomeno nuovo non si esaurisce in una amplificazione delle relazioni in termini di numero e intensità, ma significa una delocalizzazione delle relazioni tale da creare uno spazio sovraterritoriale governato da regole diverse e ancora in formazione, che sollecitano un approccio trasformato e solidaristico tra discipline e competenze a problemi e situazioni, particolarmente in ambito di difesa e sicurezza culturale prima ancora che nazionale. Il principio di solidarietà pluralistica diviene, quindi, il paradigma comportamentale e metodologico che consente di affrontare sfide impreviste e imprevedibili per forma ed effetto. Il bisogno di territorializzazione di diverse istanze entra in conflitto con l'esperienza di deterritorializzazione delle diversità cui oggi assistiamo. I rischi maggiori per la sicurezza provengono da questa dialettica, non gestibile con metodi e procedure convenzionali, non adeguati all'alto grado di aleatorietà delle dinamiche innescate.

Una dialettica. multipolare e pluridimensionale, nella quale è necessario distinguere le minacce di tipo convenzionale dalle minacce emergenti. La minaccia convenzionale è generalmente associata ad un governo o a gruppi di potere con una identità definita, ha un sistema lineare di azione e sviluppo ed è, dunque, gestibile da una Intelligence tradizionale, bene addestrata con capacità e tecnologie convenzionali e un metodo di analisi metodico e procedurale. Non è possibile affrontare, valutare e risolvere, invece, le minacce emergenti con le capacità finora addestrate e con le tecniche in uso. Si tratta, infatti, di un tipo di minaccia non governativa e non specifica, non convenzionale, fortemente dinamica e accidentale, non lineare, non contemplata nella dottrina e quasi impossibile da prevenire.

Per addestrare nuove capacità di Intelligence culturale abili a identificare i nuovi poteri e le instabilità emergenti ad ogni livello, per prevedere cambiamenti radicali e catastrofici, occorre modificare l'intera percezione e concezione del mondo, elaborando una potenziale comunità di Intelligence delocalizzata e detemporalizzata, cioè, ubiqua, capace di attivare in situazione organi periferici come centrali, in una nuova visione sistemica circolare non gerarchica e non verticale.

In che modo? Principalmente attraverso alcune strategie di investimento finanziario rivolte a sviluppare e potenziare risorse globalizzate e territorializzate. L'intelligence deve investire in modo “intelligente” su partners istituzionali e privati, soprattutto in termini di prevenzione culturale e di costruzione di reti collaborazione su temi sociali e di assistenza civile tra aziende economiche e soggetti privati con organismi pubblici, che svolgano una funzione di “sentinella” nel territorio, senza dovere aspettare che le situazioni degenerino in condizioni di allarme per la sicurezza al punto da rendere necessario l'intervento militare. In particolare, occorre investire risorse umane ed economiche nella ricerca e nella formazione, nelle Università e nei centri culturali, nelle associazioni di volontariato e umanitarie. In passato, soltanto le minacce impellenti ed evidenti sono state ritenute idonee a giustificare grandi investimenti. Occorre, invece, modificare il nostro approccio adeguandolo al sistema globale con un intervento e investimento sistematico sul piano culturale e psico-sociale, superando le tendenze tecnicistiche e burocratizzanti che sono il residuo di un razionalismo scientista ormai desueto.

Sotto il profilo tecnico-tecnologico, si rende indispensabile un'architettura informatica e amministrativa che integri telecomunicazioni, computer e analisi, studi e sondaggi, per consentire l'integrazione, il coordinamento e l'interpretazione delle informazioni dalle fonti aperte e dei segnali e dei sintomi dell'Intelligence culturale in banche dati transdisciplinari ad alto grado di interconnessione diretta e con un sistema di gestione degli archivi che vada ben oltre le applicazioni correnti. Sistemi operativi di sicurezza multilivello sono cruciali per una Intelligence strategica efficiente ed efficace. È necessario, quindi, che specialisti del mondo degli istituti di cultura, delle imprese e della libera professione collaborino con le agenzie di informazioni per governare i “sistemi aperti” che sono, ormai, il terreno di conoscenza e di azione dell'Intelligence del XXI secolo. Un problema centrale, qual è quello dell'immissione dei dati, per esempio, è risolvibile soltanto conquesta metodologia solidaristica e comunitaria, così come il coordinamento delle risorse umane adeguatamente formate a vivere e decidere in condizioni di alta indeterminazione e instabilità.

L'Intelligence culturale comprende anche l'Intelligence economica. Una condizione di fragilità nel commercio internazionale e sui mercati finanziari costituisce un pericolo reale per il mantenimento di equilibri di pace e per la sicurezza. Ciò significa, innanzitutto, investire con una attenta programmazione nella ricerca scientifica e tecnologica con ricadute nel sistema applicativo economico ma con una visione prospettica di ampio respiro, spaziale e temporale.

Tra le misure preventive di Intelligence non può non rientrare il controllo della corruzione e dei sistemi di interessi diffusi, ai limiti della legalità o spesso oltre confine, che sono come bombe innescate pronte ad esplodere imprevedibilmente. Gli ultimi fatti, nel mondo del calcio italiano, mostrano quanto sia necessario attivare quanto prima questo sistema di Intelligence culturale ubiqua, anche attraverso l'utilizzo di strumenti tecnici, come le intercettazioni, ma senza ridurre il sistema ad una burocrazia tecnologica, che non è in grado di interpretare elementi minori o solo apparentemente marginali nell'ambito di un sistema complesso globale.

E qui tocchiamo un'altra questione strategica nella riorganizzazione dell'Intelligence: la formazione. Manca, ad oggi, un metodo di indagine e ricostruzione delle precondizioni di cambiamento, in tutte le dimensioni, da cui possa scaturire una crisi, una rivoluzione, un'aggressione, una rottura degli equilibri pericolosa per l'intero sistema Paese. Occorre, invece, mettere a punto una strategia metodologica transculturale e transdisciplinare, che addestri, sviluppi,. integri e coordini competenze diverse in ogni dimensione, capacità e abilità che siano rese collaborative sia verticalmente che orizzontalmente. C'è bisogno, quindi, di un radicale e profondo cambiamento di paradigma culturale, che consideri l'Intelligence come una comunità di esperienza e informazioni non classificate, provenienti dalla vita pubblica e privata, senza gerarchie di valore e senza frontiere nazionalistiche o ideologiche. Il nuovo approccio dell'Intelligence culturale integra le diverse discipline e le diverse prospettive etiche e religiose in una ecologia della mente e dell'intelligenza, per adattarci alla situazione globalizzata e trovarci preparati alle sfide future, in un autentico servizio alla pace e al bene comune, piuttosto che riprodurre una storia di affari di esclusiva pertinenza di un gruppo ristretto di responsabili, cui delegare la decisione e la selezione del bene di tutti senza verifiche e controlli. L'Intelligence deve, invece, diventare il cuore e la mente della vita democratica e del sistema del sapere e della politica. Ciò è possibile soltanto restituendo ai cittadini pari dignità di intelligenza civile e di compartecipazione ai processi e alle strutture di pace sociale. D'altra parte, trasparenza e pubblicità sono un principio cardine dello Stato democratico e la segretezza rappresenta una condizione eccezionale e non può essere una regola metodologica, neanche per ragioni di sicurezza, per le quali è, tra l'atro, una soluzione inadeguata.

Il filosofo Norberto Bobbio notava come proprio nella trasparenza delle informazioni e nella pubblicità dell'amministrazione pubblica risiedesse la distinzione tra il governo democratico e quello assoluto-dittatoriale.

In questo contesto di trasformazione paradigmatica, un ruolo fondamentale è svolto dalla valorizzazione della funzione equilibratrice del Capo dello Stato come il referente primario e ultimo di garanzia del sistema democratico di informazione e sicurezza quale tutore dei principi e dei valori della costituzione e delle regole di convivenza intoccabili e irreprensibili. Per poter svolgere davvero questa funzione di garanzia, il Presidente della Repubblica deve poter contare su un sistema di rilevazione delle informazioni corretto e adeguato, che non può che essere costruito secondo i criteri di Intelligence culturale e ubiqua su indicati.

Scrive Norman Cousin: “Il governo non è fatto per vedere le grandi verità: solo le persone possono vedere le grandi verità. I governi sono specializzati in verità piccole e medie. Devono ricevere istruzioni dal loro popolo riguardo alle grandi verità. E la verità riguardo alla quale devono ricevere istruzioni, oggi, è che occorre creare nuovi strumenti per affrontare i maggiori problemi sulla Terra”. E poi: “La migliore difesa di una nazione è una cittadinanza istruita”.

Fino a qui il documento di Ipazia Preveggenza Tecnologica del maggio 2006.

Scriveva, successivamente al nostro sforzo, il prof. Marco Giaconi, Direttore di ricerca del Centro Militare di Studi Strategici di Roma per commentare la legge di riforma dei servizi: “La Riforma dei Servizi di Informazione e Sicurezza già votata al Senato, con il suffragio unanime delle Forze Politiche, non appare, a dire il vero, una generale Riforma dei Servizi, quanto piuttosto un ridisegno del rapporto, sempre critico in Italia, tra Servizi e classe politica. E quindi tra classe politica e FF.AA.
Sembra poi che la classe politica della cosiddetta "seconda Repubblica", diversamente da quella che l'ha preceduta, che si intersecava con l'lndustria di Stato e le grandi aziende private italiane, sia più interessata a gestire senza intromissioni i suoi rapporti con le piccole e grandi lobbies che la finanziano e spesso ne gestiscono i voti; mentre la "Prima Repubblica" poteva utilizzare i Servizi per una politica globale di sostegno agli interessi economici e industriali degli oligopoli pubblici e privati.
Oggi, la grande impresa italiana è ridotta a poca cosa, la rete delle PMI ha casomai necessità di altri tipi di protezione strategica, la classe politica italiana inoltre non ha più la stessa collocazione nell'Alleanza Atlantica e nel Mediterraneo che caratterizzava la guerra fredda.
Ma potrebbe avere, sia sul piano geopolitica che economico, una proiezione ben più ampia di quella che si era configurata dagli anni '50 fino agli anni '80-‘90.
A questo quadro generale si aggiunge, magna pars, il rapporto tra i Servizi e la corporazione dei magistrati il cui ruolo, come già alla fine della cosiddetta "Prima Repubblica", copre funzioni che necessiterebbero di una linea politica bipartisan che sia accettata, oggi, nelle materie del terrorismo internazionale, della gestione dei conflitti globali non-ortodossi, nella delicata questione della repressione alla nuova criminalità organizzata.
Tutte questioni critiche che stanno al confine tra l'attività dei Servizi e la attività della magistratura giudicante e requirente.
E questioni, aggiungiamo noi, che non sono state regolate dal patto non scritto che ha definito i rapporti tra classe politica italiana successiva alla crisi del 1992 e magistratura.
Una pericolosa dimenticanza che rischia di mettere in crisi perfino lo stesso sistema politico italiano post-"Tangentopoli" in rapporto alla politica internazionale e di Difesa e Sicurezza, esclusa dal patto temporaneo che ha dato origine all'attuale assetto del sistema politico nazionale, a destra come a sinistra.
La "Seconda Repubblica" si è costituita senza pensare niente di nuovo nel campo della Difesa e della Sicurezza, tradizionalmente scaricate sulla rete di alleanze internazionali dell'Italia e messa da parte nel dibattito pubblico, per ovvi motivi: una vera analisi della politica di Sicurezza avrebbe evidenziato la spaccatura tra le forze politiche, e probabilmente anche alcuni partiti di governo di sicura fede atlantica avrebbero trovato qualche difficoltà a far digerire al loro elettorato determinate scelte nel campo della Difesa.
Non dimentichiamo che la Democrazia Cristiana e il Vaticano erano molto freddi riguardo alla adesione dell'Italia alla NATO, come ha ricordato recentemente il Presidente Emerito Francesco Cossiga, del Partito Comunista Italiano era ovvia l'estraneità al Patto Atlantico, Benedetto Croce era contrario, e perfino un diplomatico liberalconservatore come Manlio Brosio, era tentato dal neutralismo, per poi divenire convinto atlantista dopo una lunga conversazione con Edgardo Sogno.
La politica estera è dunque la "cenerentola" della "Prima Repubblica", e le FF.AA. non sfuggono alle tensioni clientelari della classe politica attive in tutti gli altri settori della vita statale.
In questo contesto i Servizi divengono facilmente l'obiettivo di azioni di intossicazione, diffamazione, di raffinata guerra psicologica da parte dell' Est sovietico, e la lunga storia dei "servizi deviati" è servita a dissociare i Servizi dai loro responsabili politici e a inglobare gran parte della classe politica filoccidentale nelle azioni egemoniche dell'opposizione, scaricando, almeno di fronte all'opinione pubblica, tutte le colpe su "una parte" dei Servizi.
Anche il caso "Gladio-Stay Behind", con la destrutturazione autonoma della rete NATO-SISMI da parte del governo italiano, e si tratta di una struttura che era definita dagli accordi dell'Alleanza Atlantica, si inserisce in questa opera di intossicazione e finlandizzazione di fatto della "Prima Repubblica".
Ma probabilmente la questione, anche qui, riguarda la politica interna: "Gladio Stay Behind" si stava ristrutturando come una rete di controllo del territorio anche nel Meridione, con l' apertura , per esempio, del nucleo Gladio-Stay Behind di Trapani, e qui lascio la conclusione all'intuizione del lettore.
Data questa introversione della politica estera in quella interna, che permane anche nella "Seconda Repubblica", il sistema politico nazionale evidentemente non reggerà a nessuna tensione internazionale maggiore delle attuali local wars sia mediterranee che fuori dal quadrante strategico Southern Flank della NATO.
Qui si capisce la ossessione che mostra l'attuale Legge di Riforma dei Servizi sul rapporto tra classe politica e azione del Servizio: un potere sempre più debole non può certo sopportare la possibilità che un Servizio, come accade ovunque in Occidente (e ancor di più nell'area dell' ex-Patto di Varsavia) possa operare con margini di autonomia vasti sia all' interno che all'estero.
Certo, la classe politica italiana non teme una operazione del Primo Direttorato Centrale del KGB, da Andropov a Gorbaciov fino a Vladimir Putin, ovvero quel golpe strisciante del Servizio sovietico contro il PCUS che ebbe inizio con la Perestrojka.
Ma una classe politica strutturalmente debole non può non essere ossessionata da un controllo totale, spesso snaturante, sui Servizi.
Ma la politica estera italiana non si muove più in un contesto di guerra fredda dove le carenze della classe dirigente prima o poi sono supplite da alleati più forti e determinati.
Se, fino al 1989, la "semplice eleganza" della guerra fredda permetteva ben note e spesso utili vacanze separate dei politici italiani, oggi il contesto della Global War on Terror non consente più una autonomia strategica non contrattata , e non finalizzata, dell'Italia nello scacchiere occidentale.
Per non parlare del "Nuovo Medio Oriente" nel quale la questione del jihad della spada e della parola deforma e rende inattuale la tradizionale politica italiana di appeasement con i Paesi arabi, moderati e non.
I nuovi competitori globali dell'Italia hanno diversi interessi, una differente strategia globale, un minor interesse a coprire le carenze, i ritardi e gli errori della classe politica italiana. Di queste tematiche non vi è traccia nella bozza di legge passata al Senato, palesemente ossessionata dal possibile ricatto di "spezzoni" dei Servizi su parti della classe politica.
Nuovi Servizi, bene, ma per quale strategia globale? Perché è quella che costituisce lo scheletro dottrinale e pratico del Servizio, non le tiritere da giureconsulti sui "segreti di Stato". Un Servizio non è un Archivio.
Un Servizio, nella mia opinione, non deve essere mai finalizzato al contrasto di una sola grande minaccia ali' interesse nazionale e alle alleanze dell'Italia.
Il SISMI e il SISDE della legge 801 del 1977 erano il prodotto della minaccia terroristica interna (ed estera) e questa linea si desume dall'impianto politico della legge 801.
Ma sarebbe un errore finalizzare oggi un nuovo Servizio al contrasto del jihad della parola e della spada, o indirizzarlo alla intelligence economica e finanziaria o ancora legarlo ad alleanze politiche internazionali che possono variare da un momento all'altro. Il Servizio si occupa di tutte queste cose insieme, e soprattutto si interessa del nesso strategico che sussiste tra queste varie forme dell' interesse nazionale. Che, peraltro, non cambia con la caduta dei governi”.

Per ora questo. Come capite, Giaconi mi sembrò subito uno studioso competente e in modo particolare mi piacquero alcuni suoi pensieri relativi al modo in cui l’intelligence opera: “E' inoltre da notare che l'intelligence funziona con il criterio bergsoniano del lusso della percezione.
Ovvero, le attività delle Agenzie devono essere sovrabbondanti, magari errate se in buona fede e a costi contenuti, perché si tratta di cercare ciò che non si vede ad occhio nudo, e i numerosi tentativi fanno parte del gioco.
La logica "aziendale" che vede ogni investimento come produttore di profitto, nell'intelligence, non ha spazio.
Come sarebbe andata a finire la seconda guerra mondiale se il SOE britannico avesse cessato gli aviolanci perché spesso lontani dall'obiettivo? Il Servizio non è una fabbrica né un supermercato. E l'economia del Servizio non si misura con i criteri con i quali si valutano i bilanci della Provincia de L'Aquila. O il budget di una azienda di aspirapolvere.”

Marco Giaconi mi finì di conquistare con i suoi dubbi su che cosa si volesse intendere per adeguata formazione nella legge di riforma dei servizi: “Cosa vuoI dire "adeguata formazione" come si sostiene al punto c) del comma 8 dell'art. 4, per gli "ispettori" del DIS? Una "scuola delle spie"? Assisteremo ai "formatori" per gli ispettori del DIS? E chi li forma, quis custodiet custodes? E qual è il criterio? Non si capisce bene se, come è probabile, i "formatori" (sembra di parlare di un team di venditori di aspirapolvere) insegneranno a pararsi il fondoschiena con le leggine e i regolamenti o a svolgere il lavoro di operatori di intelligence, che è un mestiere pericoloso”.

Solo io so quante volte, prima che il professor Giaconi scrivesse queste sante parole, ho scelto di seguire il “sentiero non battuto” dell’intelligence culturale e non le autostrade “Folletto”. Ma questo è il proseguo della storia che mi preparo a raccontare.

Oreste Grani
 
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