Non vi fidate di Ipazia Preveggenza Tecnologica

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Oreste Grani
view post Posted on 21/7/2012, 17:49




Oggi mi allontanerò dai soliti argomenti che il violento e stupido Amalek mi ha costretto a trattare. Voglio, in ore così difficili, offrire ai pazienti lettori di questo sito e, in modo indelebile, alla memoria della rete, una riflessione sui Giochi Olimpici e il loro ruolo per l'Umanità.

A giorni si vedrà se l’Olimpiade è ancora in grado di svolgere il ruolo di ultima oasi di pace fuori dai torbidi coinvolgimenti della geopolitica nelle sue ultime forme di "guerra tra la gente".

Vedremo se a Londra prevarrà la fratellanza, sopra gli odi di parte.
Capiremo se il "Gioco innocente e neutrale" praticato nelle misure dell'armonia dei corpi e dello spettacolo colorato, avrà la meglio sui rancori generati dai monoteismi e dalla povertà di troppi.

Vedremo se prendere atto della graduatoria delle Nazioni classificate per prestigio del numero delle medaglie, rimuoverà lo spettro dei collaterali immondizia in scadenza.

Vedremo se l'apologia dei successi nazionali basterà a coprire, durante il periodo dei Giochi, le vicende reali che stanno dietro la facciata festosa.
I sussulti del mondo in trasformazione, loro si veri terremoti distruttivi rispetto alle falde geologiche in movimento, disveleranno nei prossimi giorni quanto sono profondi i solchi che dividono i popoli e quanto l'eccentricità del Mondo non sia ancora un valore prezioso da perseguire?

La strage di innocenti turisti israeliani in Bulgaria ad opera di uno svedese suicida già prigioniero nella atipica base USA di Guantanamo a Cuba, Damasco in fiamme, la Nigeria senza pace, una sala cinematografica a Denver trasformata in un mattatoio, Bagdad e Kabul senza futuro, l'Egitto tormentato dopo la rimozione di Mubarak; la Grecia (patria delle Olimpiadi) svenduta, la fiera Spagna pronta alla rivolta sono prologhi di una tragedia che potrebbe scoppiare facendo saltare l'uso politico, quale valvola di sfogo per la gente, che la maggioranza dei Governi affida alle Olimpiadi e a manifestazioni similari.

Per non farvi ingenuamente sorprendere e con l'augurio che tale evocazione sia taumaturgica, vi riporto alla memoria la sequenza degli avvenimenti dell'assalto alla residenza degli atleti israeliani nel villaggio olimpico di Monaco, nell'efficientissima Germania, il 5 settembre 1972.

Martedì 5 settembre, ore 5:10: due postini, passando nei pressi del villaggio olimpico, vedono alcuni giovani che stanno scavalcando la rete di protezione. Sono otto persone in tuta, con sacche sportive in mano. I postini tirano dritto, pensando che siano atleti reduci da una scappatella notturna.

Ore 5:15: i giovani si dirigono frettolosamente verso la palazzina al numero 31 di Connollystrasse, dove sono alloggiati gli atleti di Israele, di Hong Konge dell'Uruguay. Ventimila poliziotti sono addetti al servizio di sorveglianza del villaggio olimpico, ma nessuno ferma gli otto giovani.

Ore 5:20: una donna delle pulizie sente un colpo di arma da fuoco e grida l'allarme. Il capo della delegazione di Hong Kong si affaccia sulla porta che dà sulle scale e vede un uomo con il mitra in mano e il viso mascherato. Subito dopo sente altri colpi di arma da fuoco, grida, gemiti, e rumore di lotta.

Ore 5:30: l'allenatore della squadra israeliana di sollevamento pesi si cala, in pigiama, da una finestra e riesce a fuggire. Fornisce le prime notizie alla polizia e ai funzionari: gli otto giovani sono un commando di guerriglieri, probabilmente feddain.

Ore 6: nel villaggio olimpico scatta l'allarme generale. Arrivano poliziotti, autoambulanze, «pantere». Ma nessuno sa, ancora, che cosa sia successo nella palazzina numero 31.

Ore 7: un uomo dal viso mascherato si affaccia dalla finestra del terzo piano, e mitra in mano ordina a tutti di stare lontano. «Abbiamo nove ostaggi israeliani, vivi. Se vi muovete o sparate, li facciamo fuori tutti», intima. Non resta che aspettare.

Ore 8: un barelliere ha il permesso di rimuovere il corpo del primo israeliano, un lottatore, ucciso dai guerriglieri nel parapiglia dei primi momenti dell'irruzione, un altro israeliano, ferito nello scontro con i palestinesi, muore poco dopo.

Ore 9:30: parte da Bonn per Monaco, con un aereo speciale, l'ambasciatore israeliano in Germania: ha appena ricevuto una lista coi nomi di 200 guerriglieri palestinesi che si trovano nelle carceri di Israele. Il commando del villaggio olimpico, che fa parte dell'organizzazione dei feddain, Settembre nero, ha posto l'alternativa: se entro le 12 i palestinesi non saranno liberati, gli ostaggi verranno uccisi.

Ore Il:30: giungono al villaggio olimpico quattordici tiratori scelti dell'esercito tedesco, chiamati d'urgenza dal distaccamento di Wisesbaden.

Ore 12:05: il capo della polizia della Baviera annuncia, in una conferenza stampa, che gli ostaggi sono ancora vivi e che sono in corso trattative tra guerriglieri e autorità.

Ore 15: parte da Bonn per Monaco il cancelliere Brandt.

Ore 16: il commando dà un ultimatum: se entro le 18 le richieste non saranno accolte gli ostaggi saranno uccisi.

Ore 18:10: anche questo ultimatum scade e non succede niente . Seguono ore di trattative convulse.

Ore 22:30: si apre la porta alla speranza: il capo della delegazione olimpica egiziana si presta a' fare da mediatore tra i feddain e le autorità.

Alle 23 scadeva l'estremo ultimatum dei guerriglieri rinviato, di fronte all'intransigenza israeliana e per salvaguardare fino al limite le vite degli ostaggi, di ora in ora, a cominciare dalle 12 di mattina. A un certo momento i guerriglieri asserragliati nella palazzina avevano nelle loro mani il ministro degli Interni e alcuni suoi fidi, tra cui il borgomastro di Monaco e il ministro degli Interni bavarese. Avrebbero potuto prendere in ostaggio anche lui: una garanzia assoluta di sopravvivenza. Ma prima di iniziare le trattative con questo personaggio, gli avevano dato la parola che avrebbe potuto allontanarsi vivo. Il ministro aveva giurato ai guerriglieri che avrebbero preso indenni l'aereo per i paesi arabi. Alle 22 un camion militare arrivava davanti alla palazzina e caricava i feddain e i loro ostaggi. Dopo 200 metri li trasbordavano su due elicotteri che dovevano portare israeliani e palestinesi all'aeroporto militare di Fuerstenfeldbruck, a 50 km da Monaco dove era in "attesa un aereo pronto a partire per Tunisi, per il Cairo o per qualsiasi capitale araba i feddain avessero deciso. Un terzo elicottero accompagnava la spedizione.

Alle 22:30 i tre elicotteri atterravano. Dal primo elicottero scendono due feddain, e il pilota, e si avvicinano all'aereo. Di colpo si accende una accecante batteria di riflettori e i cosiddetti «tiratori scelti» aprono il fuoco all'impazzata.
Un feddain cade crivellato, cade pure il pilota dell'elicottero. L'altro feddain corre verso il secondo elicottero. Ne scendono alcuni uomini, certamente il pilota, qualche guerrigliero, forse qualche ostaggio. I feddain rispondono al fuoco. Ma la mitraglia dei tiratori scelti continua come una grandine. Sparano alle ombre sul suolo, agli elicotteri, ai «terroristi», agli ostaggi, ai piloti tedeschi. Salta per aria anche l'elicottero con gli occupanti. A questo punto sono morti quattro feddain, i nove ostaggi, un pilota d'elicottero, un poliziotto colpito dai guerriglieri. Altri due poliziotti sono feriti. Un palestinese riesce ad allontanarsi, ma viene preso poco dopo. Fuori dall'aeroporto alcune persone lo vedranno passare col viso pieno di sangue, stretto fra due agenti, in macchina. Poi udranno una raffica. Anche il quinto guerrigliero risulta, nei notiziari, «morto nella sparatoria». Gli altri tre guerriglieri vengono presi prigionieri. A questo punto gli organi di informazione di massa ricevono e trasmettono l'annuncio che il potere propone: salvaguardato l'ordine, fatta giustizia: tutti i terroristi sono stati uccisi, tutti gli ostaggi sono salvi. Mezz'ora dopo lo scontro all'aeroporto, in una conferenza stampa, il portavoce del governo federale annunciava raggiante: «I terroristi sono stati sgominati. Mai avremmo permesso che lasciassero il territorio tedesco. Lo avevamo deciso fin da stamane. La nostra azione ha avuto il successo sperato.» Il portavoce aggiungeva elogi per le forze dell'ordine e, ad un giornalista che chiedeva la sorte degli ostaggi; rispondeva: «Sono salvi.»

Alle ore 3:17 del mattino il sindaco di Monaco invertiva la rotta dichiarando ai giornalisti : «È terribile ! Tutti gli ostaggi sono stati uccisi. I terroristi hanno fatto saltare un elicottero. È impossibile fare un bilancio esatto di quanto è accaduto.» I radiocronisti potevano urlare ai microfoni la nuova notizia, ma le rotative dei giornali continuavano ancora per pagine intere a proclamare l'esultanza per la morte dei «criminali» e la salvezza degli ostaggi.

La vicenda di sangue di Monaco resta ormai come un «contropiede» da manuale per l'informazione giornalistica. La notizia nasce al momento giusto: l'allarme alle prime luci dell'alba, poi via via il crescendo degli avvenimenti. In redazione hanno il tempo per studiare accortamente la tattica per aggredire il fatto. I cronisti sono al posto giusto, si riesce a spedirne un altro a Tel Aviv, si chiedono ai corrispondenti le reazioni a caldo dalle varie capitali, mentre le agenzie battono migliaia di parole.

Quando la macchina redazionale entra nella fase di confezione del giornale, il materiale appare ormai abbondante, anche se il «fatto» sembra segnare il passo. I margini di tempo cominciano a ridursi, si arriva verso la mezzanotte.
La prima edizione deve chiudere: a Monaco non accade ancora niente di definitivo, in tipografia la pagina si avvia verso le rotative. Ma ecco l'inizio dello scioglimento: un pullmino con guerriglieri ed ostaggi ha lasciato gli alloggi, sembra si diriga verso l'aeroporto. Prima modifica, ma l'ufficio diffusione preme per il via. Il giornale va in macchina. Sono appena arrivate le prime copie quando la situazione precipita in pochi minuti. Gli inviati telefonano: sparatoria all'aeroporto, le agenzie confermano.

Spazzato via il commando, salvi gli ostaggi, precisa il portavoce del governo tedesco. Rifacimento immediato; poche righe in neretto, un titolo. Parte la seconda edizione, mentre Monaco resta sempre in linea: i particolari si accumulano, le notizie trionfali coincidono pur nella confusione fomentata dalle centrali che hanno in mano la regia del dramma. I giornalisti sono esclusi dall'aeroporto militare, nessuno riesce a controllare le informazioni direttamente. Il messaggio trionfale si propaga in un lampo.

Dalla capitale israeliana l'inviato, appena sceso dall'aereo, riesce a telefonare al giornale le scene di giubilo degli israeliani incollati alle radioline. La prima pagina si gonfia in maniera sostanziosa, con un titolo a nove colonne, quasi di beatitudine per lo scampato pericolo. Con l'anticipo di mezz'ora sul tempo concesso dalla «diffusione», parte la terza edizione. Siamo a posto, l'Ordine ha vinto. Ma ecco che le telescriventi tornano a chiamare: una corsa in corridoio, un pezzo di carta: «Tutti gli ostaggi sono stati uccisi», dice il sindaco. Ma che credito dare a questa voce solitaria? I giornalisti piombano in una conferenza stampa in cui il governo non vuol confessare i fatti, tira per le lunghe, e solo dopo un'ora giunge alla conferma. E nasce la quarta edizione. All'edicola, ai quattro angoli del mondo, il lettore fiducioso nella voce dei mezzi di comunicazione di massa compra dalla stessa fonte, a breve distanza, i due opposti messaggi.


Il tutto nell'efficientissima Germania, prima dell'unificazione.
Se ci saranno profanazioni della pace nell'oasi di Londra, è perché a tanti anni di distanza da quegli avvenimenti poco o niente è stato fatto per rimuovere le cause del massacro di Monaco '72. Anzi.

I monoteismi intolleranti, in qualunque modo si sono mascherati, l'avidità maniacale degli speculatori finanziari, il cieco agire della maggioranza dei governi a discapito dei più e a favore di pochi "alieni", hanno l'opportunità di stravincere impadronendosi di tutto il medagliere.
Fuori da metafora, mentre alcuni si impadroniscono di quante più ricchezze possibili, a tutto il resto dell'Umanità vengono lasciati, inavvertitamente, i libri e i loro contenuti millenari.

Approfittiamo di questa distrazione temporanea dei potenti ignoranti ed arroganti, organizzando una rivolta culturalmente consapevole scuotendo i popoli dall'indifferenza e dalla rassegnazione sua alleata.
Perfido Amalek, a questi pensieri ero intento quando hai ritenuto che io fossi un pericolo per gli uomini e che fosse giunto il tempo di inibirmi nelle mie azioni, diffamandomi.

Oreste Grani

 
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Oreste Grani
view post Posted on 23/7/2012, 08:01




Perfido Amalek, come forse (o senza forse?) cominci a capire, ora che mi hai costretto a rivelare la natura e i moventi delle mie azioni, non ti darò tregua.
Proditoriamente mi hai “aggredito alle retroguardie quando ero già stanco e affaticato colpendo quelli dei miei che erano vecchi e deboli” come ricorda il Deuteromonio.

Amalek l’immondo (e con te i tuoi silenti complici e ispiratori) quando il Signore mi avrà dato riposo e mi avrà aiutato a sconfiggere tutti i nemici di Ipazia e della verità, cancellerò, come mi hanno insegnato, la memoria della tua stessa esistenza sotto il cielo.
Ti cancellerò da “sotto tutti i cieli”.
Torniamo con un flashback alle parole: “intercettazioni telefoniche”.
Scrivevo successivamente a queste due parole: “Amerei non rimanere, per tua grave responsabilità, delegittimato e fuori da un dibattito che mi ha visto, riservatamente, fare il mio dovere, più volte, perché nel Paese non si determinassero condizioni di appropriazioni private di questo settore a discapito della legittima costituzionalità e della protezione dei diritti di tutti i cittadini.”
È opportuno richiamare alla memoria dei pochi (o stanno crescendo?) attenti lettori di questo sito l’articolo comparso sull’Espresso il 11/12/2006 di Peter Gomez e Vittorio Malagutti:

“INTERCETTAZIONI / L'EREDE DI SUPER AMANDA
Finmeccanica Security
Controlli sui telefoni. Vigilantes e radar. Ecco i piani del gruppo statale. Ereditati da Telecom

Grande Fratello offresi: importante azienda italiana a controllo pubblico, dotata di esperienza e tecnologie di eccellenza, garantisce servizio tutto compreso a tutela degli interessi dello Stato. Da mesi ormai, sfoderando queste credenziali, il gruppo Finmeccanica ha lanciato una campagna lobbistica sul governo italiano per diventare il fornitore unico della sicurezza nazionale: dall'antiterrorismo al contrasto dell'immigrazione clandestina, dalla sorveglianza delle reti informatiche e delle infrastrutture strategiche (porti, aeroporti, gasdotti) fino alla gestione delle intercettazioni telefoniche disposte dalla magistratura.

È un'offensiva a tutto campo quella condotta dai manager guidati dall'amministratore delegato Pier Francesco Guarguaglini. Obiettivo: commesse pubbliche per centinaia di milioni di euro destinate a un gruppo che già può vantare contratti miliardari (in euro) con lo Stato nel campo dell'aviazione civile e militare con le controllate Alenia e Agusta Westland, dei sistemi d'arma (Oto Melara), dell'elettronica e degli apparati di telecomunicazioni (Elsag e Selex). La partita più delicata, quella seguita con maggior attenzione (e preoccupazione) dal mondo politico, si sta giocando intorno al ministero della Giustizia di Clemente Mastella. In palio c'è il mercato delle intercettazioni telefoniche disposte dalle procure come strumento d'indagine. Un mercato ricchissimo che tra sprechi di ogni genere è arrivato a costare alle casse dello Stato oltre 400 milioni di euro l'anno. Per tagliare le spese bisogna centralizzare il servizio, sostengono i manager di Finmeccanica. E non solo loro, per la verità. Perché adesso ogni tribunale va per la sua strada e non sempre punta al risparmio.

Ecco la soluzione, allora. Il governo firma un contratto con l'azienda pubblica guidata da Guarguaglini, che si offre di gestire per intero lo spionaggio telefonico (quello legale, ovviamente) fornendo uomini e tecnologie all'avanguardia. Risultato: Roma tiene i cordoni della borsa grazie all'appalto unico, a livello locale invece il lavoro verrebbe concentrato su 26 procure distrettuali. "Non c'è ancora nulla di deciso", spiega l'ex magistrato Alberto Maritati, il sottosegretario alla Giustizia delegato dal ministro a occuparsi dello scottante tema. Nelle prossime settimane sono attese le conclusioni di una commissione tecnica. E poi forse tra un mese, forse di più, dovrebbe arrivare una decisione definitiva. Si capirà, in poche parole, se il pressing di Guarguaglini avrà convinto il governo.

Spiegato così, in estrema sintesi, il progetto targato Finmeccanica assomiglia molto a quello a suo tempo proposto da Telecom Italia e salito alla ribalta delle cronache con il nome in codice di Super Amanda. C'è, però, una differenza importante: l'azienda controllata da Marco Tronchetti Provera avrebbe finito per sommare la gestione diretta delle linee telefoniche e quella del servizio di ascolto disposto dai pm. Una sovrapposizione giudicata fin da principio potenzialmente pericolosa da molti addetti ai lavori. Poi, in questi mesi, è scoppiato lo scandalo della presunta centrale spionistica coordinata da Giuliano Tavaroli, l'ex capo della security di Telecom Italia. Una trama per molti aspetti ancora oscura che racconta di sistematiche violazioni della privacy ai danni di personaggi più o meno famosi, di investigatori privati non proprio al di sopra di ogni sospetto e, soprattutto, di un fiorente mercato dei tabulati telefonici.

Non è un caso, allora, che la lobby di Guarguaglini prenda le distanze dai gestori delle reti fisse e mobili che, in base al progetto, dovrebbero limitarsi ad affittare le linee. Secondo indiscrezioni, però, non sarebbe da escludere che il gruppo presieduto da Guido Rossi possa restare in gioco con una partecipazione di minoranza in un ipotetico nuovo consorzio che dovrebbe gestire il servizio su scala nazionale. Solo un'ipotesi, per il momento. Intanto l'offensiva continua e non solo in direzione del governo. Da settimane ormai i rappresentanti di Finmeccanica hanno avviato colloqui informali con la pletora di aziende, spesso molto piccole, che noleggiano alle procure le macchine e i software per le intercettazioni. Qualche nome? Resi, I&S, Sio, Radio Trevisan, Area, Rcs (gruppo Urmet), giusto per citare alcune sigle tra le più conosciute tra gli addetti ai lavori. Molte di queste società negli anni scorsi hanno fatto affari d'oro cavalcando il boom del settore. Adesso però il business è a rischio. Da una parte il ministero sembra deciso a tagliare le spese. Dall'altra l'ingresso in campo di un grande gruppo come operatore unico finirebbe per mettere fuori gioco gli imprenditori che finora hanno fatto il bello e il cattivo tempo sul mercato, spesso allacciando rapporti esclusivi con pm e forze di polizia.

Fine della storia? Pare proprio di no, perché Finmeccanica sembra interessata a coinvolgere alcune delle aziende in difficoltà, se non altro per la fornitura di tecnologie. L'operazione è gestita da Sabatino Stornelli, approdato al gruppo di Guarguaglini dopo una lunga militanza a Telecom, per la precisione in Telespazio. Stornelli, tra l'altro, siede sulla poltrona di amministratore delegato di Seicos, la società controllata al 100 per cento da Finmeccanica a cui verrebbe affidato, secondo quanto risulta a 'L'espresso' il nuovo filone d'affari delle intercettazioni. Seicos è stata costituita solo pochi mesi fa (nel febbraio scorso) e il suo oggetto sociale comprende la 'gestione di reti di telecomunicazioni (...) per l'attuazione dell'obiettivo primario della sicurezza pubblica dello Stato, interna e internazionale'. Alla presidenza della neonata società troviamo Luciano Pucci, esperto d'informatica, anche lui con un passato alla Telecom e poi consulente del ministero dell'Interno e della Polizia, mentre tra gli amministratori compare Massimo Pini, ex consigliere craxiano dell'Iri.

A ben guardare, la sigla Seicos non è del tutto nuova. Fino all'anno scorso tra le controllate di Finmeccanica c'era un'altra azienda con quella stessa ragione sociale che, però, a fine dicembre del 2005, cambiò nome in Selex service management. Tempo tre settimane e nacque la nuova Seicos, quella presieduta da Pucci. Il marchio Selex, invece, indica le aziende del gruppo attive nel settore dell'elettronica per la difesa. Ma non solo, se è vero che la Selex communications sta cercando di lanciare sul mercato una nuova macchina, una sorta di computer multifunzione battezzato con un nome che è tutto un programma: Sistema di intercettazione informatizzato centralizzato, in sigla Siic.

Le operazioni societarie sono il segnale esterno di un riassetto che incide nella sostanza. In tempi di minacce terroristiche il business della sicurezza fa gola a molte aziende, compresa la Finmeccanica di Guarguaglini che ha colto la palla al balzo per dare una nuova mission operativa alla controllata Elsag di Genova, storica insegna dell'automazione industriale da tempo in crisi. Detto. Fatto. L'anno scorso è stato varato un nuovo polo della security, che comprende la protezione delle reti telematiche e dei dati sensibili, i progetti di analisi del rischio, la protezione delle infrastrutture fisiche e i sistemi informatici della sicurezza. Tutto finito sotto l'ombrello di Elsag che ha rilevato le attività di altre società del gruppo pubblico. Mentre nei mesi scorsi è partita l'integrazione con Datamat, la società di sistemi informatici quotata in Borsa appena comprata da Finmeccanica con una doppia offerta pubblica. A dire il vero, però, le grandi manovre del gruppo sono cominciate l'anno scorso con un affare passato quasi del tutto sotto silenzio. Un affare in apparenza di portata minore che però coinvolge anche la divisione security di Telecom, destinata di lì a poco a finire al centro dello scandalo. Da tempo il gruppo di telecomunicazioni cercava un compratore per i cosiddetti CTS, i Centri Territoriali di Sicurezza. In parole povere i servizi di vigilanza agli uffici e alle centrali telefoniche.

Nel giugno del 2005 queste attività sono state cedute a Tecnosis, nuova società tra Finmeccanica e, con una quota del 30 per cento, la multinazionale francese Atos origin. Prezzo d'acquisto: solo poche decine di migliaia di euro per un ramo d'azienda che si portava in eredità, oltre a un centinaio di dipendenti, anche tutti i contratti di guardianìa per gli impianti Telecom. Di lì a pochi mesi i francesi si sono defilati dall'operazione, girando al socio italiano le loro azioni di Tecnosis. Risultato: Finmeccanica adesso gestisce anche le portinerie di moltissimi uffici Telecom e, tra polemiche e contestazioni sindacali, ha concesso in subappalto a una serie di agenzie di vigilanza il controllo su impianti e immobili della compagnia telefonica. Non è certo un servizio ad alta tecnologia, ma anche questo fa gioco nel sistema di sicurezza globale propagandato dagli uomini di Guarguaglini.

Per l'occasione è stato lanciato un concetto nuovo, quello del 'cubo della sicurezza' o 'security cube', per dirla all'inglese. L'immagine serve a descrivere un complesso di attività che si incastrano una con l'altra per garantire ai clienti, pubblici e privati, la protezione dai rischi più vari. I cubi, in verità, sarebbero due: quello fisico e quello logico. Il primo indica i servizi a difesa di una struttura come un aeroporto o una centrale elettrica. Quindi, per esempio, il controllo degli accessi e la videosorveglianza. Il cubo logico serve a proteggere le reti informatiche attraverso sistemi e software progettati ad hoc. Ce n'è anche per la polizia, perché Elsag produce il cosiddetto Patrol support system, una sorta di computer portatile con cui l'agente di pattuglia può verificare in tempo reale l'identità e i precedenti di un sospetto o la targa di un auto. E sempre in tema di controlli non può mancare la tecnologia biometrica, che serve al riconoscimento personale attraverso macchine che immagazzinano, gestiscono e leggono milioni di dati, per esempio sulle impronte digitali o i lineamenti del volto.

A questo punto il menù è completo. Se in un futuro prossimo il governo, sul modello americano, vorrà gestire in modo centralizzato con scopi di antiterrorismo tutti i dati sensibili dei suoi cittadini, Finmeccanica è già pronta per il gran colpo: diventare il fornitore unico della security di Stato. Dai portinai ai supercomputer.

Un consiglio molto politico


Il mandato del presidente e amministratore delegato di Finmeccanica, Pierfrancesco Guarguaglini, sarebbe dovuto scadere subito dopo le elezioni ed essere rinnovato dal nuovo governo. Nel maggio del 2005 il consigliere Francesco Mazzucca (Udc) si è dimesso a cinque giorni dall'assemblea, facendo decadere (grazie ad altre poltrone vacanti) l'intero cda. Il quale ha avuto un nuovo mandato fino al 2008. Curiosamente Mazzuca aveva motivato la scelta con "sopravvenuti ed imprevisti impegni professionali" che, pochi mesi dopo, non gli hanno impedito di accettare la carica di presidente della controllata Ansaldo Nucleare. Al di là di Guarguaglini, un tecnico vicino ad An, oggi in buoni rapporti con il suo ex compagno di Università e ministro dell'Interno, Giuliano Amato, nel consiglio siedono molti esponenti espressi dai partiti. Qualche esempio: Franco Bonferroni, legato a Lorenzo Cesa, il segretario dell'Udc col quale è anche stato condannato in primo grado per corruzione, ma poi ha visto la sentenza annullata per un vizio procedurale; Roberto Petri, capo segreteria dell'ex sottosegretario alla Difesa Filippo Berselli (An); Paolo Vigevano, consulente dell'ex ministro all'Innovazione Lucio Stanca (Forza Italia); l'ambasciatore negli Usa Giovanni Castellaneta, consigliere diplomatico di Berlusconi; Gian Luigi Lombardi-Cerri, un tecnico vicino alla Lega. Poi ci sono quelli che un passato politico ce l'hanno dietro le spalle come Maurizio De Tilla, presidente della potente cassa forense, un passato di simpatizzante socialista e una candidatura con elezione mancata nelle file del Polo delle libertà.

Cielo, mare, terra, spazio: dove osa lo Stato
Un po' Iri, un po' Efim: così Finmeccanica è diventato il gigante statale dell'industria militare. Ecco cosa produce

Caccia e Atr Finmeccanica controlla Alenia, il colosso italiano dell'aviazione. Oggi il programma principale è quello dell'intercettore Eurofighter ma è presente anche nel consorzio a guida americana per il futuro caccia Jsf. Costruisce il velivolo da trasporto C-27 e collabora all'ultima versione del C-130 Hercules. Tra la produzione civile spicca l'Atr assieme ai francesi, la partecipazione con Boeing nel Dreamliner 787 e il nuovo accordo con la russa Sukhoi per un jet da cento posti.

Elicotteri Finmeccanica è il terzo gruppo mondiale degli elicotteri. Possiede l'Agusta e la britannica Westland. Insieme producono l'Eh 101 Pelikan, adottato anche dalla Casa Bianca. C'è poi il peso medio europeo NH 90, l'Agusta Bell 139, il Lynx inglese e le ultime varianti del leggendario A 109. Il mercato principale è quello militare, dove spicca il Mangusta da combattimento. Tank e cannoni Oto Melara ha portato in dote un arsenale di artiglierie. Ci sono i cannoni navali più venduti nel mondo, adottati dalle marine di tutto l'Occidente: dagli Usa a Israele. Invece i mezzi corazzati vengono prodotti soprattutto per le nostre forze armate: tank Ariete, le autoblindo Centauro, i blindati Dardo. Nel catalogo anche bombe 'intelligenti', mitragliere e siluri speciali.

Radar e company

La storica Selenia è diventata Alenia, ma fabbrica ancora sistemi radar militari di alto livello, che coprono anche un'area di 300 chilometri e sono stati esportati in diversi paesi. Ci sono poi i radar degli aerei da caccia. Galileo invece si occupa di apparati di puntamento per corazzati ed elicotteri. Elettronica Ricco catalogo, militare e civile con Selex e Datamat. Ci sono le radio del sistema Tetra, adottato dal ministero dell'Interno per la rete di comunicazioni, ma anche apparecchi per i collegamenti militari e apparati per disturbare le trasmissioni. Missili Finmeccanica come partner del megaconsorzio Mbda partecipa a 45 programmi per costruire missili e sistemi da guerra elettronica. I missili più importanti sono il Teseo antinave, l'Aster 30 terra-aria, il modernissimo Meteor per i combattimenti aria-aria.
Spazio Alenia Alcatel produce satelliti e sonde, Telespazio gestisce reti di collegamento. Così Finmeccanica è uno
dei leader europei e protagonista del progetto futuro chiamato Galileo. Trasporti Con Ansaldo Breda realizza treni ad alta velocità e metropolitane. Il più famoso è l'Eurostar Etr 500 ma ci sono anche jumbo tram e i convogli del tunnel sotto la Manica Energia Ansaldo Energia realizza centrali elettriche d'ogni genere. Turbine a gas, impianti idroelettrici e persino nucleari. Oltre ai sistemi di trasformazione dell'energia, ci sono le sale di controllo e qualunque apparato di sicurezza.

Procura modello Bolzano

Risparmiare sulle intercettazioni? Mentre da anni tecnici e politici lamentano i costi crescenti della bolletta, a Bolzano sono riusciti a dare un taglio netto alle spese. "E senza rinunciare a questo strumento di indagine", precisa Cuno Tarfusser, procuratore del capoluogo altoatesino. "Anzi negli ultimi due anni", dice Tarfusser, "le linee sotto controllo sono aumentate". Intanto i costi del servizio sono calati da 1,1 milioni di euro del 2003 ai 447 mila del 2005: un risparmio di oltre il 60 per cento. Non è solo questione di intercettazioni. A Bolzano, con determinazione teutonica, si sono messi in testa di gestire la Procura con uno stile aziendale. Sfruttando un finanziamento del fondo sociale europeo (200 mila euro) si sono affidati a una società di consulenza che ha contribuito a indicare mezzi e obiettivi di una ristrutturazione all'insegna dell'efficienza. Così, nel giro di due anni, le spese di giustizia si sono ridotte del 52 per cento. E grazie a questi interventi, spiega Tarfusser, la Procura è riuscita a migliorare anche la qualità dei servizi resi al cittadino. Un'esperienza di successo, senza precedenti in Italia, che verrà discussa in un convegno a Bolzano il 14 e 15 dicembre.”

Come vedete, amici del web e nemici di Ipazia Preveggenza Tecnologica, è materia delicata. Anzi lo è sempre stata come il “ricordo”, già pubblicato, su Walter Beneforti dimostra.
Lo scenario delineato dall’articolo di Gomez e Malagutti del 2006 correlato a quanto vi ho segnalato sulla recente nomina del responsabile della sicurezza di Finmeccanica Paolo Campobasso, sono elementi sufficienti per capire che, intorno a queste decisioni, si gioca il futuro della indipendenza del nostro Paese e della sua vita civile e democratica.
Il gruppo di lavoro organizzato in Kami Fabbrica di Idee ne era già pienamente consapevole sin dal 12 novembre 2004, data in cui fu redatto, a cura della dott.ssa E. B., il documento che in parte oggi ripubblico: “… La struttura del sistema, che prevede una separazione delle funzioni di acquisizione, di registrazione e di riproduzione ed analisi, consente la remotizzazione, cioè, l’ascolto da remoto, dei terminali rispetto ai server centrali, permettendo in tal senso, alle varie forze di Polizia Giudiziaria, di gestire le attività di intercettazione senza la necessità di spostarsi presso i locali della Procura.

Il modello tecnologico comprende:
- Le infrastrutture di telecomunicazione, con un sistema di interconnessione con le reti di telecomunicazione e il sistema di ascolto;
- Un sistema di certificazione delle informazioni univoco per la validazione dei dati;
- Un insieme di infrastrutture per la memorizzazione delle informazioni e la strutturazione dei dati per ricerche multimediali.

Ciò avviene attraverso:
- Introduzione di sottosistemi hardware e software dedicati per le intercettazioni dati e per quelle ambientali;
- Introduzione di un elemento di rete (NAS=Network Attached Storage) dedicato alla memorizzazione delle intercettazioni (spazio di storage espandibile fino a 8 TeraByte) con caratteristiche di scalabilità, ridondanza e prestazioni superiori ai sistemi normalmente utilizzati dalle Procure;
- Realizzazione di un accesso sicuro ad Internet per l’erogazione dei seguenti servizi:
- ricezione da parte del server di acquisizione e correlazione dei cartellini relativi all’intercettazione da parte dei provider che utilizzano il servizio di mail per l’invio degli stessi;
- aggiornamento automatico dell’antivirus per i server e le postazioni di ascolto;
- accesso da parte degli operatori telefonici ad un servizio FTP per l’upload dei tabulati relativi alle operazioni;
- utilizzo della posta elettronica certificata;
- accesso sicuro al Trouble Ticketing via Web per la segnalazione dei disservizi in modalità informatica.”

Inoltre, nel documento si poteva leggere che: “… Grazie alla collaborazione con Kami – Fabbrica di Idee, Monitoring Italia (già Carro srl) è riuscita ad elaborare un progetto completo e articolato di modernizzazione dello Stato nel comparto dei servizi alla Giustizia. Attraverso la costruzione attenta e paziente di una rete di relazioni istituzionali di alto livello, insieme, le due società hanno avviato un percorso commerciale e legislativo a garanzia del diritto, della sicurezza dello Stato e del contenimento dei costi di amministrazione della Giustizia.”
Nel proseguo di questa ampia e ormai irreversibile testimonianza racconterò chi preferì i soldi della COFITO della signora Bruna Segre, e della BIM-Banca Intermobiliare agli interessi della Repubblica Italiana.

Oreste Grani
 
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Oreste Grani
view post Posted on 25/7/2012, 09:04




L’8/1/2012, ignorando l’imminente (14/2/2012) attacco che Amalek l’infangatore preparava, scrivevo, a un lungo elenco di collaboratori e amici fidati, una mail intitolata “Alan Turing e il business dell’Intelligence Culturale” in cui spiegavo le ragioni della scelta di legare il nome di Alan Mathison Turing al proseguo del progetto Ipazia Preveggenza Tecnologica e le sue profonde motivazioni etico-morali funzionali ad una Strategia di Sicurezza Nazionale.

Con la mail dell’8/1/2012 che trovate in coda a questo ragionamento, annunciavo che avevamo messo a fuoco, con i tre convegni che ci preparavamo a realizzare, un percorso operativo per accompagnare, legittimamente, imprenditori e le loro aziende a saper utilizzare le centinaia di milioni di euro che l’Europa era pronta a stanziare per operatori (imprese e liberi professionisti) di infrastrutture rilevanti per la sicurezza e l’intelligence.

Oggi, lurido Amalek, alla luce del tuo modus operandi e delle azioni svelate dei tuoi complici oggettivi che subito hanno saputo e voluto utilizzare il tuo lancio anonimo di fango, conosco finalmente il movente del tuo crimine: 330 milioni di finanziamenti che da Bruxelles il 10 di luglio sono stati messi a disposizione per il cosidetto bando di sicurezza le cui modalità di erogazione sono disponibili nel sito della Commissione UE (http://cordis.europa.eu/fp7/home_en.html).
Dopo il mio annuncio dell’8/1/2012 (sei mesi prima della pubblicazione del bando) e avvicinandosi il convegno “Lo Stato Intelligente. I finanziamenti europei per l’innovazione e per la Sicurezza” del 23/3/2012 alla Camera dei Deputati, qualcuno ha ritenuto che Ipazia Promos, Ipazia Preveggenza Tecnologica e il loro promotore non arrivassero “vivi” all’appuntamento con questa lecita opportunità di mercato. Opportunità per cui da anni, facendo sacrifici di ogni tipo, una squadra di professionisti, guidati solo da una preveggenza che, a volte, sorprendeva anche me.

Eravamo, con il nostro approccio etico e patriottico, una minaccia che andava tolta di mezzo. Con qualunque mezzo. E tu, lurido Amalek, sei stato il mezzo.
Ma, come ho già scritto, non avendo avuto i nemici di Ipazia, di Turing e della Repubblica Italiana il coraggio, fuori da metafora, di uccidermi, e non essendo io morto, mi preparo a riprendere il cammino e a vigilare perché quei 330 milioni siano attribuiti, secondo giustizia, e, per usare le parole che inadeguatamente faccio mie, del Presidente della Corte dei Conti Luigi Giampaolino perché “con la corruzione nessuno inquini e distrugga il mercato”.

Pubblici ufficiali sleali, imprenditori affamati, Società quotate in borsa o meno, mediatori di affari disoccupati, pensionati statali millantatori, giovani arroganti e smemorati, vecchi arnesi di “ambienti riservati”, siete tutti avvertiti: quei soldi servono alla piccola e media impresa italiana per, almeno nel settore della sicurezza e dell’intelligence, superare la crisi e salvare migliaia di posti di lavoro di italiani, viceversa, senza futuro.
Proteggere il percorso legittimo e ottimale di quei soldi è una questione di Sicurezza Nazionale e perché nulla accada di illecito sto provvedendo ad allertare la stampa specializzata e gli organi preposti alla vigilanza.
Meglio prevenire l’appropriazione indebita che, vanamente, inseguire i furbetti di turno.
Donne e uomini avvisati, mezzi salvati.


"La mattina di lunedì 17 febbraio 1992 l'ingegner Mario Chiesa era convinto che stesse per iniziare un giorno come un altro. Una nuova settimana, magari seguita da una vacanza, forse sulla neve, che lo distraesse un po' prima delle fatiche della campagna elettorale.
Quella mattina Mario Chiesa non era il solo a sentirsi così tranquillo. Nessuno immaginava che quella data avrebbe segnato una svolta nella vita del Paese. Così, erano tranquilli Bettino Craxi, segretario del PSI, e Arnaldo Forlani, segretario della DC. Anche il segretario del PSDI, Antonio Cariglia, quello del PLI, Renato Altissimo, e quello del PRI, il più noto Giorgio La Malfa, si preparavano a iniziare una nuova settimana di lavoro in vista delle elezioni. E lo stesso valeva per Francesco Cossiga, presidente della Repubblica, e Giulio Andreotti, ancora una volta (l'ultima) presidente del Consiglio e da un anno senatore a vita. Per tutti il pensiero più importante era l'imminente campagna elettorale. Ma erano dei veterani della politica, abituati a combattere dure battaglie e a conquistare le preferenze sul campo, una per una. Niente di troppo preoccupante, dunque. E poi l'evidente crisi che attraversava il PDS faceva stare tutti un po' più sereni. La pericolosa avanzata del PCI di Berlinguer si era infranta sulle macerie del Muro di Berlino. Invece, quel 17 febbraio avrebbe cambiato per sempre la vita di ciascuno di loro. Molti sarebbero finiti sotto processo e condannati. Quasi tutti avrebbero concluso bruscamente la loro carriera politica. E i loro partiti, protagonisti della vita politica italiana dalla caduta del fascismo, di lì a qualche mese sarebbero improvvisamente e definitivamente scomparsi. Spazzati via dalle inchieste giudiziarie e dall'indignazione popolare.

Che il 17 febbraio del 1992 sarebbe rimasto nella storia d'Italia, però, non lo immaginavano neppure Antonio Di Pietro e, men che meno, Mario Chiesa, il vero protagonista di quella giornata, il «giovedì nero» della Prima Repubblica.
Diversamente da quanto avvenne quel lontano giovedì del 1929 a Wall Street, infatti, nel 1992 ci volle un po' di tempo perché tutti si rendessero conto della gravità della situazione.

All'inizio nessuno capì granché. Neanche chi, ancora potente, presto avrebbe visto crollare tutto quello che aveva costruito nel corso di lunghi anni, o chi, al contrario, ancora sconosciuto, avrebbe sperimentato un'insperata fortuna. Nel suo diario, alla data del 17 febbraio, Paolo Pillitteri, ex sindaco di Milano e cognato di Craxi, scrisse che non si sarebbe scatenato alcun effetto domino. Lui si sentiva al sicuro. Sarebbe stato uno dei primi parlamentari inquisiti. Una lungimiranza, quella di Pillitteri, che fa il paio con quella di un altro diario ben più famoso, quello di Luigi XVI, che annotò come priva di eventi di rilievo la data del 14 luglio 1789, giorno della presa della Bastiglia. Per Mario Chiesa, in particolare, quel freddo lunedì – la mattina a Milano c'erano poco più di due gradi – doveva essere un giorno come un altro. E dunque un giorno in cui intascare tangenti e far fruttare l'ultimo incarico che il sottobosco politico che frequentava da anni gli aveva procurato: la presidenza del glorioso Pio Albergo Trivulzio, il più grande istituto assistenziale per anziani di Milano"

In quelle stesse ore, febbraio 1992, ora più ora meno, ero impegnato nella lettura del testo "Gli ingranaggi della mente" del neuroscienziato Colin Blakemore all'epoca docente all'Università di Oxford che troverete di seguito.

"Gli ingranaggi della mente
Posti di fronte al compito di spiegare le massime conquiste della mente dell’uomo nei termini di quel meccanismo ben oliato che è il suo cervello, filosofi e scienziati si sono ridotti all'uso di metafore, analogie con la tecnologia a loro contemporanea. Nel secolo scorso il cervello era paragonato a una locomotiva a vapore o a un magico meccanismo a orologeria. Nel nostro secolo, le metafore sono cambiate più e più volte, via via che la tecnologia progrediva.
E così il cervello è stato paragonato di volta in volta a un "telaio incantato", a un centralino telefonico, a un ologramma o a un laboratorio chimico. Ma la metafora più forte, e in un certo senso anche più terrorizzante, è quella del computer.
Un computer, in senso lato, è una macchina da calcolo, un congegno che serve a elaborare informazioni in base a un programma, cioè a un insieme di istruzioni formalizzate.

Secondo una definizione così elastica, il cervello non è soltanto simile a un computer: è un computer. Per dirla con le immortali parole di Marvin Minsky del MIT (Massachusetts Institute of Technology), uno dei fondatori della nuova scienza dell'intelligenza artificiale, il cervello è una “macchina di carne”.
John McCarthy della Stanford University in California, che ha inventato il termine "intelligenza artificiale", scorge nel funzionamento delle macchine, anche delle più rozze, l'equivalente delle funzioni superiori della mente umana credenze, pensieri e coscienza: "Si può affermare che anche macchine semplici come i termostati abbiano le loro convinzioni. [...] Il mio termostato ha queste tre: qui dentro fa troppo caldo, qui dentro fa troppo freddo, qui dentro c'è la temperatura giusta!".

Naturalmente le affermazioni di McCarthy erano deliberatamente provocatorie; ma a meno di sostenere che nel cervello vi sia qualcosa di magico e indefinibile, dobbiamo per forza concludere che esso è una macchina calcolatrice.
In tal caso, c'è da chiedersi se la struttura dei moderni computer digitali sia in grado di fornirci qualche spiegazione circa i meccanismi del pensiero e dell'intelligenza umani. Gli esseri umani sono in grado di risolvere problemi logici, di seguire determinate strategie in giochi come quello degli scacchi, di effettuare calcoli matematici. I computer sono capaci di fare tutte queste cose, e sotto molti punti di vista di farle in modo più efficiente. Tuttavia, come nella favola della lepre e della tartaruga, i cervelli umani sono in grado di superare i computer in tanti modi diversi perché si servono di abili trucchi che battono la mera velocità e la prodigiosa memoria delle macchine fabbricate dall'uomo.

Malgrado la potenza dei computer e l'influenza che hanno avuto sulla nostra vita, fondamentalmente il loro modo di pensare è di un'ingenuità incredibile. Il computer universale archetipico, quale lo immaginò il brillante matematico di Cambridge Alan Turing, non è altro che un sistema che reagisce a una semplice sequenza di messaggi scritti su un nastro di carta o a qualche altra forma di presentazione seriale. Tuttavia, per mezzo di programmi espressi in istruzioni della massima semplicità, che consistono unicamente di una serie di zero e di uno, una simile macchina digitale universale è in grado – come ha dimostrato Turing - di affrontare e risolvere qualsiasi problema che possa essere espresso in termini di uno specifico insieme di istruzioni e di regole.
Alan Turing descrisse questo tipo di architettura informatica in un famoso articolo scientifico pubblicato nel 1937 poco dopo essersi laureato a Cambridge e molto prima che un'équipe di Philadelphia capeggiata da un matematico altrettanto eminente, John von Neumann, mettesse a punto ENIAC, il primo computer digitale del mondo.

Turing era uno di quei geni eccentrici ma dagli innumerevoli talenti che la scienza produce di tanto in tanto. Morì nel 1954 all'età di soli quarantuno anni, dopo aver ingerito del cianuro che aveva sintetizzato nel suo laboratorio casalingo. Quattro anni prima di morire pubblicò il suo scritto forse più controverso e provocatorio, intitolato "Computing Machinery and Intelligence". In questo testo, Turing affronta un interrogativo poi divenuto centrale per la psicologia cognitiva e la filosofia, cioè se le macchine possano davvero avere una mente come gli esseri umani. Si ricordi che i pochi computer digitali del tempo erano congegni mostruosi e del tutto inaffidabili, con meno memoria di una moderna calcolatrice tascabile.

Ciononostante, Turing è stato tanto preveggente da interrogarsi, in quel suo lavoro pionieristico, sul rapporto fra mente umana e computer.
Turing si era reso conto che pensiero e coscienza sono esperienze squisitamente private. Sebbene io sia convinto che gli altri esseri umani pensino in modo assai simile a come penso io, non ho prove dirette del fatto che abbiano una mente cosciente. Possiamo conoscere i pensieri altrui solo attraverso le azioni che li rivelano (che comprendono l'uso del linguaggio per descriverli). Turing osservava che «entrare dentro» gli altri esseri umani per studiare la natura delle loro cogitazioni coscienti non è affatto più facile che penetrare nel mondo mentale di un computer. Invece, egli propose un test per valutare l'intelligenza di una macchina.

Nel «test di Turing» un esaminatore siede davanti a una telescrivente che comunica con due persone diverse che egli non vede. A queste due persone, l'esaminatore pone alcune domande riguardanti le loro esperienze mentali, e magari tenta d'indovinare chi dei due è un uomo e chi una donna. Il passo successivo è sostituire una delle due persone con un computer: l'esaminatore è capace di distinguere la macchina dall'essere umano? Se non ci riesce, Turing conclude che il computer ha superato la prova dimostrando di saper pensare come una persona.
Ora, gli scritti di Alan Turing hanno suscitato un dibattito sulla natura dell'uomo non meno acceso della nota querelle seguita alla pubblicazione della teoria dell'evoluzione di Darwin. AI pari di quest'ultimo, Turing è stato accusato di essere un gretto materialista privo di qualsiasi sensibilità per l'aspetto spirituale degli esseri umani. Nulla di più falso.

È paradossale che un uomo tanto fuori dal comune - la cui eccentricità nessuno penserebbe mai di far imitare da una macchina - sia stato capace di esprimere un punto di vista tanto raziocinante e distaccato sulla natura dell'intelligenza umana.
In Faster than Thought, un divertente volume sulle origini storiche del computer, B.V. Bowden ha scritto: "È improbabile che una macchina possa mai imitare l'opera di quei pochi individui straordinari ai cui sogni e ai cui sforzi si devono la crescita e la fioritura della nostra civiltà».
Ora, Turing è senz'altro uno di questi; eppure per lui il computer era assai più di una metafora della mente: era uno strumento potenzialmente dotato di vera intelligenza.

La morte di Alan Turing è stata seguita a breve distanza di tempo dalla nascita dell'intelligenza artificiale, la nuova scienza fondata sulla sua visione delle macchine dai pensieri umani. La marcia della tecnologia è stata un milione di volte più rapida del lento progresso dell'evoluzione animale.
Nel volgere di pochi anni, i computer sono tanto cambiati da essere del tutto irriconoscibili: le loro dimensioni sono diminuite mentre la loro memoria e velocità sono aumentate. La capacità del primo computer, realizzato da John von Neumann nel 1946, era di sole venti "parole»: ma la memoria delle macchine è passata in un baleno alle migliaia, e poi ai milioni, e finalmente ai miliardi di unità d'informazione.

Via via che le macchine diventavano più potenti, cresceva la complessità dei linguaggi e delle tecniche per programmarle. Per i primi anni della rivoluzione dell'intelligenza artificiale - dal 1957 circa alla metà degli anni Sessanta - i profeti di questa nuova religione del semiconduttore sono stati di un ottimismo inconsulto. Si erano prefissi l'obiettivo di insegnare alle macchine l'esecuzione di compiti che, negli esseri umani, giudichiamo come il massimo dell'intelligenza: risolvere problemi matematici e logici, giocare a scacchi. L'incredibile velocità, la prodigiosa memoria e la straordinaria precisione (quando è in giornata buona) dell'odierno computer digitale gli conferiscono una forza bruta in grado di risolvere con notevole successo problemi del genere.
Nel giro di due o tre anni dall'avvio - al Massachusetts Institute of Technology - del progetto intelligenza artificiale, era già pronto un programma computerizzato in grado di eseguire calcoli come un laureato in matematica. Ancora qualche anno, e il campionato mondiale di backgammon sarebbe stato vinto da un programma elaborato da Hans Berliner. Sembrava proprio che le macchine vincessero su tutta la linea contro la mente umana. E invece, nei vent'anni successivi, l'ottimismo è sbollito e persino i fanatici dell'intelligenza artificiale hanno capito che i computer sono ancora lontani dall'eguagliare le conquiste del pensiero umano.

È ormai chiaro che i computer riescono tanto bene in certi compiti solo in virtù della loro spettacolare velocità e della loro sconfinata memoria, ma sono ben lungi dal possedere la sottigliezza e la creatività tipiche dell'intelletto umano.
E ancora, si è visto che gli obiettivi fissati ai primordi dell'intelligenza artificiale - giochi matematici, problemi logici e partite a scacchi - non erano poi le cose più difficili che un uomo possa fare col proprio cervello.

Se giudichiamo la profondità dei nostri processi mentali col metro della difficoltà che gli informatici incontrano nel tentativo di creare programmi capaci di simularli, appare chiaro che le operazioni più complesse svolte dal nostro cervello sono quelle che tutti facciamo senza sforzo e in modo inconsapevole. Riconoscere i singoli oggetti nell'incredibile mosaico di forme dell'immagine retinica; decifrare il torrente di suoni che forma il linguaggio umano; restare ritti in piedi su due gambe, andare fino alla porta e aprirla. Sono questi i veri miracoli dell'intelligenza umana, che fanno apparire le più complesse operazioni dei computer simili agli exploit intellettuali di un lombrico. Il valore commerciale di una macchina che capisce la lingua parlata come la capiamo noi, o di un robot che manipola oggetti al pari di un artigiano in carne ed ossa, sarebbe enorme. Ma anche il più ottimista fra gli esponenti dell'intelligenza artificiale è disposto ad ammettere che si tratta di traguardi ben lontani. Ciò significa che il computer è solo un'altra metafora della mente umana, e che dobbiamo andare in cerca di nuove tecnologie che ci aiutino a capire come essa funzioni? Forse. O forse significa che il cervello è una macchina calcolatrice, ma che si fonda su principi diversi da quelli degli odierni computer fabbricati dall'uomo. È proprio vero: capire in che modo il cervello elabori la percezione di un volto o i movimenti della danza potrebbe aiutarci a progettare computer migliori, che vadano sempre più vicini a superare il decisivo test di Alan Turing.

COLIN BLAKEMORE
Neuroscienziato. Docente di Fisiologia all'Università di Oxford
Questi stimoli intellettuali facevano parte di un percorso formativo che mi ha segnato e che, nel bene e nel male, mi ha fatto diventare quello che oggi alcuni di voi conoscono.
Prima di queste pagine, dedicate al rapporto dicotomico uomo-macchina, ne avevo dovute leggere altre centinaia attinenti le altre 40 dicotomie di cui mi sentite da anni parlare relative alla cosidetta "Luna Dicotomica".
Tutte queste pagine mi sono servite e a tutte sono grato per avermi messo nella condizione di capire il divenire delle cose e fare previsione che, in buona percentuale, si sono puntualmente verificate.

Ad esempio, 20 anni fa pensai, grazie a Colin Blakmore, che la figura di Alan Turing sarebbe divenuta centale nella comprensione del fenomeno emergente, a quella data, dell'Intelligenza Artificiale e soprattutto in occasione del Centenario della sua nascita: 23 giugno 2012. Il resto è stato facile. Compreso individuare il rapporto tra il pensiero e l'azione di Turing e il prof. Luciano Floridi [Hertfordshire/Oxford, IACAP, Cattedra UNESCO in Information and Computer Ethics, Turing Centenary Advisory Committee (TCAC)] e l'etica nella rete o gli sviluppi dell'Information Tecnology nell'ambito del concetto di guerra, difesa e sicurezza di cui l'ing. Alessandro Zanasi [European Commission Security Advisor (ESRAB, ESRIF)] è uno dei massimi esperti del mondo. Così come mi è stato facile capire il valore di RAV. SCIALOM BAHBOUT - [Rabbino Capo di Napoli e dell'Italia Meridionale], DOTT.SSA LAURA CASERTA - [Reviewer per la valutazione richieste di finanziamento della Commissione Europea] e il DOTT. LIVIU MURESAN - [Presidente Esecutivo della Fondazione Eurisc].
Questi scienziati, con altri che stiamo selezionando, costituiscono parte del comitato scientifico dei 3 convegni che stiamo preparando per i mesi a venire. Alcuni di loro diventeranno docenti della scuola di Intelligence Culturale che apriremo a Terni nel Centro Multimediale.

“Risposte locali a sfide globali. Innovazione per la sicurezza e l'intelligence finanziate dall’Europa”
Le sfide contro i cittadini e i loro Governi provengono sia dall'alto (il commercio internazionale ed i “mercati” che erodono quello che solitamente si pensava fosse un aspetto della sovranità nazionale) sia dal basso (il terrorismo e il crimine organizzato cercano di costringere gli Stati a cedere loro potere o a eluderne il controllo) e riguardano traffico di stupefacenti, crimine organizzato, proliferazione di armi convenzionali e non convenzionali, criminalità finanziaria. Ma un attacco alla comunità dei cittadini e allo Stato, che richiama non solo il ruolo dell'Intelligence ma anche l'Etica sociale, economica e politica, arriva anche dalla corruzione. Un fenomeno che, denuncia Luigi Giampaolino, presidente della Corte dei Conti “inquina e distrugge il mercato” e vede la lotta dell'Italia ancora “sotto la sufficienza”. E purtroppo risulta in crescita tanto che le denunce di casi di corruzione alla Corte dei conti nel 2010 sono state 237 e sempre l'anno scorso, rispetto al 2009, i reati corruttivi segnalati sono stati un terzo in più.
Tutte queste sfide possono e devono essere raccolte e combattute attraverso l'aiuto della tecnologia dell'informazione che è utilizzata sia nella fase di prevenzione sia di protezione. La tecnologia da sola non può garantire la sicurezza ma la sicurezza non può essere garantita senza l'utilizzo della tencologia. Consapevoli di questo scenario, Governi e Istituzioni Occidentali hanno avviato alcune azioni tese a rafforzare l'uso dell'Intelligence contro le nuove minacce.
In particolare l'Europa si è distinta per quanto riguarda l'azione sul terreno della ricerca e innovazione tecnologica al servizio della sicurezza. Prima con ESRAB e poi con ESRIF l’Europa ha indirizzato il proprio sforzo nel settore dell’Intelligence e Sicurezza garantendo l’alleanza tra ricerca, scienza, industria, operatori di infrastrutture rilevanti per la sicurezza e autorità responsabili della sicurezza negli Stati membri della Ue.
Sforzo che ha portato allo stanziamento di svariati miliardi di Euro resi disponibili ai cittadini, alle aziende ed alle istituzioni europee attraverso diverse linee di finanziamento.
Ma sia per combattere terrorismo, criminalità e corruzione con le nuove armi tecnologiche e di Intelligence, sia per assicurarsi i finanziamenti europei, il primo passo da compiere è quello dell'informazione. Da qui nasce il progetto di un convegno dedicato a questi temi con la consapevolezza che un Paese più sicuro, più tecnologicamente avanzato e meno corrotto, sarà anche un Paese più competitivo e capace di superare la crisi.
È stato facile e difficilissimo al tempo stesso. Ma soprattutto mi ha guidato le Ecclesiaste (C'è un tempo per ogni cosa) e gli insegnamenti sul tempo opportuno per ogni cosa. Quello e non un altro.
Torniamo al febbraio del 1992 o meglio al dicembre del 1991 quando veniva dato alle stampe il testo di E. G. dedicato alla figura di Ipazia Alessandrina. Decisi quel giorno che un tempo opportuno sarebbe arrivato per quel nome e per il ricordo di quella figura di scienziata e filosofa e per quella necessità di dialogo culturale e geopolitico nel Mediterraneo.
Oreste”


Questo è quanto scrivevo l’8 gennaio 2012.
Amalek si faceva vivo per infangarmi il 14 febbraio 2012.
Fino al convegno del 23 marzo 2012 nessuno dei protagonisti di quell’evento (riuscitissimo) mi ha considerato infrequentabile incoraggiandomi nel proseguo dell’impresa. Eppure si trattava dei migliori specialisti in “fonti aperte” ed Intelligence del Paese.

Solo successivamente allo straordinario risultato di partecipazione (100 posti avevamo a disposizione e 100 posti sono stati occupati tutti da cultori della materia) e per qualità degli interventi svolti, alcuni che in comune accordo avevano messo a punto il pensiero guida del primo dei tre convegni mi hanno improvvisamente e perentoriamente posto il problema dell’imbarazzo a frequentarmi e a proseguire, con me, il percorso convenuto verso il traguardo di una stretta vigilanza sull’erogazione dei fondi previsti di cui ho già detto.

Da quella boccata di ossigeno finanziario (forse l’ultima per i prossimi anni) avevamo deciso che quel denaro doveva sostenere la piccola e media impresa perché tornasse ad essere il tessuto connettivo dell’eccellenza italiana. Cessando così il ruolo del “vessato” indotto della solita Finmeccanica. Almeno fino a quando, in questo gruppo, non si fossero raggiunti nuovi assetti dirigenziali e non si fosse posto fine alla stagione dell’uso “privato” del patrimonio tecnologico della Sicurezza Nazionale. Evidentemente i “gattopardi” che si aggiravano intorno a Ipazia Preveggenza Tecnologica hanno preferito tramare per allontanarmi per poter operare senza il fastidioso filtro del mio amore di Patria.


Oreste Grani
 
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Oreste Grani
view post Posted on 27/7/2012, 18:15




In queste ore difficili per tutti gli italiani onesti e per i nostri fratelli europei, in attesa che i pochi (ma sufficienti se ben usati) finanziamenti soccorrano le esangui Piccole e Medie Imprese italiane, è opportuno ricordare, anche in questo sito marginale e di relativa autorevolezza, le prescrizioni in tema di corruzione attiva vigenti in CONSIP.

La CONSIP spa che già in altro momento della mia narrazione ho citato è, a mio giudizio, una struttura strategica necessaria al rilancio della sofferente economia italiana.
L’attività ottimale delle donne e degli uomini di CONSIP, è una delle “speranze” che qualcosa cambi nel paese dei Gattopardi.

CONSIP spa è una società di diritto privato che opera in funzione di "struttura di servizio" alla Pubblica Amministrazione. In particolare, nella sua qualità di società in house allo Stato, si occupa di gestione e sviluppo dei servizi informatici per il Ministero dell’economia e delle finanze ("Mef") in materia di contabilità e finanza pubblica e del Programma di Razionalizzazione della Spesa pubblica per beni e servizi.
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Gli omaggi consentiti si caratterizzano sempre per l'esiguità del loro valore materiale, per l’occasionalità, l'assenza di causa economica, la promozione di iniziative di carattere benefico o culturale.
La documentazione prodotta nell’ambito della gestione degli omaggi deve essere conservata in modo adeguato ed esaustivo per consentire le verifiche degli organismi aziendali preposti.

Non sono tollerate regalie o promesse di regalie finalizzate a
• fornire o promettere informazioni e/o documenti riservati;
• tenere una condotta ingannevole che possa indurre la Pubblica Amministrazione in un errore di valutazione tecnico-economica;
• esibire anche internamente, documenti e dati falsi o alterati;
• omettere informazioni dovute al fine di alterare le valutazioni discrezionali della Pubblica Amministrazione.

Inoltre in caso di tentata concussione da parte di un pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio, il soggetto interessato deve:
non dare seguito alla richiesta; fornire tempestivamente informativa al proprio responsabile e all’Organismo di Vigilanza (in caso di dipendente) o al referente interno (in caso di soggetto terzo o assimilabile) ed attivare formale informativa verso l’organismo aziendale preposto.
In caso di conflitti di interesse che sorgano nell’ambito dei rapporti con la Pubblica Amministrazione o nell’ambito di rapporti patrimoniali interni, il soggetto interessato deve fornire tempestivamente informativa all’Organismo di Vigilanza (in caso di dipendente) o al referente interno (in caso di soggetto terzo) ed attivare formale informativa verso l'organismo aziendale preposto.

In caso di dubbi circa la corretta attuazione dei principi comportamentali di cui sopra nel corso dello svolgimento delle attività operative, il soggetto interessato deve interpellare senza ritardo il proprio responsabile (in caso di dipendente) o il referente interno (in caso di soggetto terzo o assimilabile) ed inoltrare formale richiesta di parere all'organismo aziendale preposto.

Le donne e gli uomini di Consip, che, in virtù delle funzioni svolte, rivestano la qualifica di pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio devono attenersi alle seguenti prescrizioni generali inderogabili:
• non accettare dazioni o promesse di denaro o altra utilità per sé o per terzi;
• non abusare delle proprie qualità o funzioni per esercitare indebite pressioni su terzi o formulare richieste ingiustificate;
• in caso di indebite sollecitazioni da parte di terzi, informare tempestivamente il proprio diretto responsabile e, laddove necessario, gli organismi aziendali preposti;
• astenersi dal comunicare o diffondere notizie o documenti riservati appresi nell'esercizio delle proprie funzioni;
• non accettare regali o altre liberalità al di fuori di quelle di modico valore.


A me sembra che l’insieme di queste disposizioni rispondano ad un necessario atteggiamento patriottico.
Questi erano, sono e saranno sempre i miei valori nell’avvicinarmi, rispettosamente, alle attività dello Stato.
E, in questo spirito, avevo ideato e realizzato il convegno “Lo Stato Intelligente: i finanziamenti europei per l’innovazione e per la sicurezza” prima che tu, perfido Amalek, provassi a mettermi fuori gioco.

Oreste Grani
 
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Oreste Grani
view post Posted on 2/8/2012, 20:32




“Io non ci farei niente con quello”.
È questo un frammento di dialogo “rubato” in una sauna dove, prudentemente e saggiamente, un habituè consiglia a un altro frequentatore di non legarsi, ne casualmente ne sentimentalmente, con “qualcuno” perché affetto da gravi malattie veneree o perché di mentalità crudele?
No, niente di tutto questo!

Le parole (Io non ci farei niente con quello) sono quanto, solitamente, “gli amici degli amici”, i servitori infedeli dello Stato, le “barbe finte” ben informate, uomini e donne “d’ambiente” proditoriamente reclutati e cooptati da altri traditori del giuramento alla bandiera negli organici delle istituzioni democratiche necessarie alla sicurezza di tutti i cittadini, dicono di me.
Dicono che non ci si deve fidare di me che, invece, tra l’altro, per buona sorte o prudenza non ho mai avuto una malattia venerea come il mio stato di servizio militare e il mio sangue attestano.

Eppure, repellenti individui, parassiti annidati nei tessuti connettivi del Paese, con stellette o senza, senza avermi conosciuto direttamente o avermi frequentato professionalmente e umanamente, si sentono autorizzati a descrivermi come un uomo pericoloso e spregevole. “… da non frequentare”.

Si, è vero, è ora di confessarlo: sono pericoloso per tutti quelli che ritengono che la Repubblica Italiana sia cosa propria anzi, mafiosamente, “cosa nostra”.
Si, è vero, sono pericoloso per tutti i servi della partitocrazia e della immeritocrazia.
Si, è vero, sono pericoloso e lo sarò sempre di più, per quelli che, non trovando il coraggio di uccidermi, hanno ritenuto di potermi infangare impunemente.
Ora che si stanno per aprire gli archivi di Stato, sono cazzi vostri.
Ora che si stanno per aprire gli archivi di Stato, sfido chiunque ad accusarmi, facendo nomi, cognomi e circostanze di quando e come io abbia corrotto un dipendente dello Stato o indotto un imprenditore a corrompere un pubblico ufficiale o chiunque fosse preposto ad un ufficio acquisti in una qualunque realtà di pubblica utilità.

Un solo nome, una sola cifra riscontrabile ed io, in omaggio al libro che ho editato (grazie ad un grande intellettuale quale è A.M.) di Catherine Millot “Gide, Genet, Mishima, intelligenza della perversione” “mi toglierò la vita strappandomi dal ventre aperto con un rasoio le budella in un minuto”. Se mi dimostrerete che ho indotto qualcuno a tradire l’Italia mi suiciderò in pubblico prendendo esempio dal sommo poeta Mishima.
Viceversa saranno cazzi vostri. Come è successo nel tempo a tutti i nemici di Ipazia.

La verità è un’altra: i luridi diffamatori che appartengono alla casta dei taglieggiatori di imprenditori, mi odiano perché da sempre, esercitando un mio diritto alla consulenza di direzione strategica finalizzata a che le imprese svolgano “servizio” al bene comune e secondo una concezione del mercato come supporto al miglioramento della qualità della vita e per il raggiungimento di giuste finalità al contempo economiche ed etico-sociali, spingo e stimolo culturalmente gli uomini e le donne che si dedicano alle imprese industriali a non utilizzare la scorciatoia della corruzione.

Certo, con questo approccio, non sono un uomo comodo, pronto per tutte le stagioni. Mi colloco, infatti, nel mondo dell’agire e del fare impresa secondo un modello non tradizionale. Sicuramente sono nemico degli schemi in base ai quali la degenerazione partitocratica e la corruzione diffusa hanno operato, in Italia e nel mondo, negli ultimi 60 anni depredando le casse dello Stato.

Certo, sono un uomo pericoloso per i promotori di accordi vessatori per il popolo italiano quale, ad esempio, fu quello per cui avremmo dovuto versare 5 miliardi di euro nelle mani del dittatore Gheddafi e della sua corte di terroristi assassini. Accordi fatti e celebrati senza che le strutture d’intelligence avvertissero il nostro Governo dell’imminente drammatica fine del dittatore e della sua famiglia.

Certo, era opportuno, dopo che mi ero rifiutato di assecondare affari con la Libia di Gheddafi, dire di me che ero un “uomo dei servizi deviati o di non so quale consorteria” spaventando i miei onesti collaboratori.

Tornerò su questo episodio con nomi e cognomi e dimostrerò che i miei calunniatori, pur essendo italiani, sono loro in realtà agenti al servizio di paesi terzi.
Io ero e sono solamente uno che, tra i pochissimi, ha previsto con precisione la fine del lurido terrorista Gheddafi.

Certo, io sono la persona che il 26 agosto del 2011 alle ore 11:05 ha dato la disposizione di pubblicare sul sito di Ipazia Preveggenza Tecnologica (la società di cui il perfido Amalek invita a non fidarsi) il pensiero che segue: “Come forse sapete noi di Ipazia abbiamo più volte omaggiato Roger Abravanel nel nostro sito con interviste e citazioni.
Abravanel è stato anche nei nostri uffici e ho avuto il piacere di illustrargli le finalità di Ipazia Preveggenza Tecnologica e il senso della scommessa culturale ed economica che stiamo realizzando.
Ho raccolto curiosità e complimenti da parte di Abravanel.
Alcuni di voi, mi risulta, non lo stimano quanto me. Questa è la ricchezza di Ipazia e del suo terreno di cultura.
Io lo stimo, invece tra l'altro, perché ha salvato l'EL AL dal fallimento quando i passeggeri di tutto il mondo non volevano viaggiare con la compagnia di bandiera israeliana perché a bordo di quegli aerei ci si moriva. E non per cattivo servizio.
Lo stimo perché, ad esempio, se avessimo accolto le sue indicazioni/proposte al posto di quelle dell'imbarazzante ex ministro Fantozzi, l'Alitalia non sarebbe fallita e mio suocero non avrebbe perso gli unici suoi risparmi. E uno di voi non avrebbe visto svanire nel nulla un credito di oltre 1.500.000,00 di euro per aver lavorato per l'Alitalia credendo alle rassicuranti promesse di Berlusconi e Gianni Letta.

Lo stimo perché ha ben posto il problema (in particolare in Italia) della meritocrazia e delle regole.
Lo stimo soprattutto perché, come potete leggere di seguito, ha saputo, secondo gli insegnamenti del grande maestro Lao Tze, dal pericolo e dalla negatività degli avvenimenti di quaranta anni fa crearsi un'opportunità.
Amo l'ottimismo e il rigore di queste sue parole:

"La mia Libia d' oro profanata dal Raìs

Ho lasciato la Libia più di 40 anni fa, quando l' ascesa al potere di Gheddafi portò all' espulsione degli ebrei libici, che si aggiunsero all' «esodo silente» di più di un milione di ebrei cacciati dai Paesi arabi, solo per il fatto di essere ebrei (un numero simile a quello dei palestinesi che persero la propria terra). In Libia gli ebrei furono particolarmente perseguitati: ricordo che una delle prime iniziative di Gheddafi fu quella di costruire una strada sul cimitero ebraico dopo avere buttato a mare con le ruspe le ossa dei morti (tra cui quelle dei miei nonni) e che ci furono diversi pogrom. In quell'occasione perdemmo tutti i nostri beni. Ma anche molti altri, e soprattutto gli italiani, persero tutto in Libia e divennero profughi nell'arco di pochi giorni. Alla fine però, un evento così traumatico si rivelò una fortuna per me: perché mi offrì l'occasione di partecipare allo straordinario sviluppo economico e sociale dell'Occidente degli ultimi quarant'anni. Non è stato così per i milioni di cittadini libici che, invece, hanno visto ristagnare la loro economia, arretrare la società e regredire la propria cultura, senza poter sfruttare le grandi opportunità che offriva loro una terra, ricca e bellissima, come la Libia. Non ci sono più voluto tornare da allora, per non dover sostituire questi bei ricordi con le immagini della Libia di Gheddafi. Conoscendo questo passato, ho assistito con sgomento alle cerimonie che hanno accolto Gheddafi al G8 all'Aquila e all'Eliseo a Parigi. Essendo pragmatico, capivo che Gheddafi rappresentava un valore economico e politico, ma la prudenza avrebbe dovuto, per lo meno, frenare l'entusiasmo di tanti politici e uomini d'affari occidentali. Collaborare senza «benedire» sarebbe stato più saggio, conoscendo il personaggio. Gli stessi cortigiani di Gheddafi di pochi mesi fa sono diventati i mandanti dell'intervento militare Nato e, oggi, si posizionano come i migliori amici dei ribelli. Ma nessun Pr di grande livello può mascherare al pubblico informato il grave errore che hanno commesso. La vera buona notizia è che la deposizione di Gheddafi offre una grande opportunità alla «primavera araba»: un modello di democrazia. Grazie alla sua posizione geografica e, soprattutto alla sua storia e alla sua cultura, la Libia potrebbe diventare un riferimento per i 350 milioni di arabi che, nei 100 anni dalla caduta dell'Impero ottomano, hanno potuto scegliere solo tra il torpore fatale della dittatura laica e la delusione dell'estremismo islamico. Dopo 40 anni, oggi, il popolo libico ha finalmente la libertà di scegliere. Potrà perseguire la strada del fondamentalismo xenofobo e antisemita, che lo porterà inevitabilmente a un isolamento politico e a una stagnazione economica, forse anche peggiori che ai tempi di Gheddafi. Oppure potrà ricreare quella società tollerante e multietnica che ricordo ai tempi di re Idris; magari riuscirà anche a recuperare il tempo perduto e a offrire alle nuove generazioni opportunità straordinarie. Come molti altri profughi italo-libici, osserverò con trepidazione queste scelte. Per 40 anni ho voluto dimenticare le mie radici, anzi: doverle di tanto in tanto rammentare, come quando Gheddafi divenne azionista della mia adorata Juventus, spesso mi irritava. Ma, come molti dei miei connazionali, so che al primo segnale di una Libia veramente libera, il desiderio di riscoprire le mie radici e rivivere i momenti straordinari della mia fanciullezza sarà fortissimo. "

Abravanel Roger

Pagina 11 (26 agosto 2011) - Corriere della Sera

Viva la Libia veramente libera!
Viva il Mediterraneo colto, ricco, libero e pacificato nel nome di Ipazia alessandrina!
Viva il Mediterraneo futura Patria tollerante di tutti noi cristiani, ebrei, mussulmani, agnostici, atei, pagani!

Oreste Grani”

Certo che sono un uomo pericoloso per quegli ambienti militari e non che campano di spese, inutili e obsolete, che vengono fatte fare alle esangui casse dello Stato.

Certo perché, tra l’altro, sono l’autore del pezzo scritto il 15 giugno 2011 alle ore 18:17 in cui dico come la penso sull’uso artificioso che si è fatto di un possibile attacco turco alla Grecia:
“Kleftes, kleftes” “ladri, ladri”. In queste ore nella terra di Pericle rimbomba l’urlo degli indignati autoconvocatisi via Facebook.
Un anno fa, in questi giorni, eravamo a Terni al Centro Multimediale ………………………….. e il nostro A. P. leggeva le immortali parole di Pericle anticipando il problema dei problemi della fase della collettività internazionale: la democrazia. La Grecia, secondo alcuni denigratori, è ormai un paese di cicale. La Grecia è un paese di cicale dove quasi tutti gli abitanti fanno la dolce vita o è, anche, uno stato che spende il 5% del suo bilancio per la difesa? Avete letto bene. Il The Times dell’08/07/2010 sostiene che la Grecia è “il secondo paese al mondo compratore di armi”. Chi ha il potere di comprare armi per l’esercito greco se non politici greci, burocrati greci, militari greci? E in quale scenario geopolitico (la Turchia nemica della Grecia?) vengono comprate tante armi? Chi produce in maggior misura queste armi che i greci devono comprare? Produttori tedeschi e francesi! Ah, ecco! La Grecia quindi spende il 5% del suo bilancio, da quarant’anni, per armarsi e prepararsi alla difesa da un possibile attacco turco. Vediamo di capire meglio. La Grecia economica e politica, quindi, passa parte del suo tempo da oltre quarant’anni, a far girare tangenti a ministri e militari. Questo è il problema! Non formiche o cicale. Inoltre, come tutti gli imprenditori di buonsenso sanno, se ci sono dei corrotti ci sono dei corruttori. I francesi e i tedeschi vendono, con le loro ditte produttrici, armi allo stato greco. Stato che paga queste armi con i soldi avuti in prestito dalla stessa Francia e Germania. Sì, proprio così, la virtuosa Germania, scandalizzata dai trucchi di bilancio dell’amministrazione greca, è lei che vende armi inutili alla Grecia. Germania e Francia, dopo aver dissanguato uno stato membro dell’Unione Europea con superflui acquisti e dopo non aver mai promosso o favorito un dialogo costruttivo nel Mediterraneo per la pace fra tutti i popoli rivieraschi (in particolare tra Turchia e Grecia), ora si “pappano” le infrastrutture, porti e aeroporti, della povera Grecia cicala.
Oggi avevo voglia di dirvi questa cosa delle armi inutili alla Grecia. Anche per riflettere, come insieme facciamo da tempo non sospetto, sul destino dell’Italietta prima di assistere inermi a una fine simil-greca. Anche noi con le nostre quarantennali tangenti, con il groviglio dei nostri corrotti e corruttori, abbiamo bisogno come europei e mediterranei di indignarci e preparare la nostra primavera dopo aver assistito a quella araba.

Altro che respingere i marocchini, gli algerini, i tunisini, i libici perseguitati. Dobbiamo imitarli. Altro che rimborsare per danni di guerra i corrotti accoliti di Gheddafi preparando così i giri di tangenti con i berlusconiani, a corollario di oltre cinque miliardi di euro. Altro che servili baciamani e l’umiliazione dell’arma dei Carabinieri obbligata ad accogliere nei propri quartieri le scorte arroganti del dittatore.
La Grecia cicala aspetta ancora i rimborsi per danni della seconda guerra mondiale da parte della Germania nazista. Altro che moralismi economici e amministrativi ai bevitori di ouzo e ai danzatori di sirtaki. Ragioniamo invece su come la cultura del dialogo può fermare questa deriva demenziale di sciacallaggio di un paese sull’altro. A. M. è andato recentemente a Cipro all’assemblea annuale di Copeam anche per capire se ci sono margini per azioni politiche, culturali ed imprenditoriali di cui Ipazia Preveggenza Tecnologica, Ipazia Promos, Ipazia web tv si possono fare promotrici. Noi pensiamo di sì e nei prossimi giorni vi diremo quali.
Buon lavoro
Oreste Grani”

Certo che sono indigesto agli uomini che ritengono che il lavoro di “compratori per conto dello Stato” sia una loro opportunità professionale e con questa arricchirsi.

Certo che sono pericoloso soprattutto se uno è oggettivamente quinta colonna di interessi anti-italiani e teme che lo “incastri” per i suoi comportamenti illeciti.
Se io fossi loro eviterei uno che opera secondo questi principi: il 23 settembre 2011 alle ore 19:01 scrivevo sotto il titolo “Catastrofe al rallentatore” le parole che seguono.

“Mai come oggi l'umanità dolorante e piegata ha bisogno di medici. Ma di medici veri e propri. Ci intendiamo.
E' un secolo che Giuseppe Mazzini scriveva queste chiaroveggenti e stimolanti parole: "lo vedo un immenso vuoto in Europa, vuoto di credenze comuni, di fede e quindi di iniziative, di culto del dovere, di solenni principi morali, di vaste idee, di potenti azioni, a pro' delle classi che più producono e non di meno sono più misere. E pensai che l'Italia, risuscitando a salvar l'Europa, avrebbe fin dai primi palpiti della nuova vita detto a se stessa e agli altri: Io riempirò quel vuoto. Poco m'importa che l'Italia, in un territorio di tante miglia quadrate, mangi il suo frumento o i suoi cavoli a miglior mercato; poco mi importa di Roma, se da essa non deve venire una grande iniziativa europea. Quel che m'importa è che l'Italia sia grande e buona, morale e virtuosa, e che abbia a compiere una missione nel mondo". Così Mazzini. Il non averlo ascoltato è il nostro peccato di tracotanza. Lo stiamo espiando.
Ernesto Bonaiuti (1944)

Ciò che oggi è sotto gli occhi di tutti voi (in particolare, il dissolversi dell'Europa) ha origine nel fallimento del progetto della "comunità europea di difesa (1954)" che affossò la prospettiva di una unificazione politica e militare e aprì la strada della progressiva (maledetta concretezza!) integrazione economica attraverso la costituzione della Comunità economica europea (CEE), del MEC, della CECA, dell'EURATOM. Arrivammo così al 1979 e alle prime elezioni a suffragio universale per il Parlamento europeo, senza sogno, e senza la volontà di divenire gli Stati Uniti d'Europa. Da quegli inutili e sterili atti di volontà popolare non nacque niente. Nessuno volle pensare alla lingua unificante europea che consentisse la formazione di una opinione pubblica e di un sistema condiviso di mass media. Non fu avviata un'operazione culturale (parolaccia inutile, questa, per gli economisti). Si decise di essere "concreti".
La moviola al rallentatore di tanta idiozia è sotto gli occhi del mondo.
Dice, chi ne sa più di me, che in presenza di monarchie parlamentari, repubbliche presidenziali, repubbliche parlamentari variamente modulate, Stati federali, Stati regionali, pensare ad una stessa concezione di "bene comune" è impossibile. Non esiste la possibilità di una reale politica comune senza una unione politica e, quindi, senza una condivisa forma di "Stato sovranazionale".
Così, siamo arrivati, come Unione Europea, a non avere una politica estera comune: alcuni Stati fanno parte della NATO, altri (sei) dell'Unione Europea ma non della NATO, alla NATO aderiscono altri sette Paesi (uno è la Turchia) che non fanno parte dell'Unione Europea, altri fanno parte della NATO ma non seguono la leadership USA. Infine, ma non ultima, esiste nella UE una cosa che si chiama UKUSA (i cinque Paesi anglofoni) cui fa riferimento il sistema di intercettazioni Echelon, accusato tra l'altro di aver spiato le stesse istituzioni europee.
E da tutto questo bordello-carosello vorremmo che emergesse una politica comune?
Sull'unificazione monetaria stendo un velo pietoso. Per non tediarvi, vi ricordo solo che molti consideravano l'euro un gioco di prestigio ora impietosamente scoperto. Nel 2001, ogni "statista" raccontò le sue c.....e al suo popolo di riferimento. I tedeschi volevano l'appoggio degli altri europei per la "loro" riunificazione, i francesi volevano mettere le briglie e la mordacchia ai tedeschi riuniti, gli italiani volevano proteggere la liretta che, all'epoca, in 130 anni di Unità, si era deprezzata di quasi "seimila volte". Tutti gli altri piccoli Stati sentivano arrivare il mare in tempesta della globalizzazione. Opportunismi senza sogno.
Nei primi sei mesi di vita, tutti ricorderete che l'euro si deprezzò rispetto al dollaro del 25%. Ci vollero le demenziali complessità della seconda Guerra del Golfo e la corsa folle del debito americano per rimontare il gap.

Ribadisco: la cosiddetta Europa è segna sogno, e non trova nella sua storia e nel suo magazzino culturale le armi strategiche del suo futuro. Il mio maestro Giuseppe Mazzini chiamò le sue associazioni Giovane Italia e Giovane Europa. L'Unione Europea è ormai vecchia nei suoi dirigenti e nei suoi comportamenti. E' un cadavere senza possibilità di rianimazione miracolosa. Dobbiamo sognare un nuovo sogno. Ecco perché ho scelto e amo Ipazia alessandrina e mediterranea. Ecco perché, sia pur poveri come siamo, sosteniamo ogni pensiero colto che ci appaia protettivo per il futuro della nostra Giovane Futura Patria Europea Mediterranea.

Viva le donne coraggiose del Mediterraneo. Viva i giovani coraggiosi delle mille piazze in rivolta. Dobbiamo prepararci all'unica soluzione che può salvare le vite, comprese le nostre, di milioni di esseri umani. Altro che far annegare nel mare in tempesta (non solo metaforicamente) i nostri fratelli africano/mediterranei. Dobbiamo consapevolmente spezzare l'area geografica, politica, finanziaria dell'Euro. E noi italiani dobbiamo dedicarci subito al sud di questa area.
Ecco il danno di aver scelto alleati come Gheddafi, Mubarak, Ben Ali, per vivacchiare senza futuro e senza speranze. Abbiamo leccato le mani, e non solo quelle, a morti viventi, a orridi zombie catatonici. Ecco la responsabilità dei Governi italiani di destra, di sinistra, di centro. Per vendere un po' di armi e arricchire un po' di più qualcuno.
………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………
A questo punto della nostra vicenda comune, spero che nessuno mi possa contestare la capacità di pre-vedere. Ora, vi prego, facciamo piccoli passi concreti (nella mia accezione del termine) per crescere insieme (cum-crescere) verso la forma giuridica che consenta di varare l'arca di Noè, CasaNova24. L'appello è rivolto a tutti. Nessuno escluso. Anche a quelli che in questo momento potrebbero sembrarmi più lontani o con cui le divergenze sono state per ora insormontabili. Che nessuno sia tanto presuntuoso da pensare di poter affrontare i prossimi anni da solo. A meno che non vi sentiate dei tappi di sughero. Se uno è stato mazziniano una volta lo sarà per tutta la vita. Parimenti anche quelli che sono stati ipaziani tiepidi o solo per una stagione possono esserlo per sempre. E' ora di mettere a vantaggio comune le nostre diversità e anche le nostre incomprensioni.
Nella verità, la pace.
Oreste Grani”

Altro che truffatore.
Da questo momento in poi racconterò di chi e di come mi ha raggirato violando oltre che l’amicizia e la fiducia riposta, l’articolo 2043 del codice civile che definisce illecito qualsiasi fatto, doloso o colposo che cagioni ad altri un danno ingiusto.
Ma, cosa più grave, di come, così facendo, ha distrutto le vite di tanti leali, entusiasti, fidati collaboratori.
Tradendo l’Italia

Oreste Grani


 
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Oreste Grani
view post Posted on 6/8/2012, 17:42




Il 23 gennaio 1948 Giulio Andreotti scriveva nel suo diario:

“Messe in giro false notizie: altro giorno di grandi arrivi di truppe americane; oggi di richiamo alle armi di dieci classi di leva. Sono squallide manovre.”
False notizie = squallide manovre, dice zio Giulio. Teniamone conto.

In queste ore giungono notizie (vere?) che Giulio Andreotti sta per passare ad altra vita. Mi auguro, per noi tutti, che esista un’altra vita, perché, viceversa, in questa gli è andata troppo bene.
Anzi, mi auguro che tutti i maestri reincarnazionisti abbiano ragione e che sia lunga, tormentata la “riabilitazione” del nostro Belzebù.

Ho voluto scrivere queste frasi in chiave iettatoria per Andreotti che, come tutti gli accaniti giocatori, è un grande superstizioso prima che il suo decesso avvenga.
Voglio essere tacciato di spirito macabro ma non di opportunismo.

Chi sia stato Giulio Andreotti non sta a me dirlo ma, lo lascio dire ad Aldo Giannuli (Edizioni Tropea “Il Noto servizio, Giulio Andreotti e il caso Moro”) che stimo come docente di Storia Contemporanea, come acuto investigatore intellettuale, come servitore della Verità e della Repubblica Italiana.

“… Tornando all’inchiesta, (Aldo Giannuli si riferisce alla clamorosa scoperta di un servizio segreto che riscrive la recente storia di Italia) quando iniziammo ad avere un bagaglio di conoscenze apprezzabile, constatammo che, per quanto il Noto servizio cambiasse pelle e componenti nel tempo, c’era una costante che lo accompagnava: il suo ambito di azione era costantemente circoscritto in un triangolo i cui vertici erano l’Arma dei carabinieri e il servizio segreto militare, poi gli ambienti imprenditoriali prossimi alla Confindustria e, infine, i servizi segreti americani.

E c’era un’altra costante: il suo referente politico, che è sempre stato Giulio Andreotti, dai giorni dell’istituzione dell’Ufficio zone di confine a quelli del caso Moro.
Beninteso: il Noto servizio non è mai stato “agli ordini” di Andreotti, anche perché, come abbiamo appena detto, aveva altri referenti con i quali confrontarsi, non sempre in perfetta sintonia fra loro. Andreotti era, piuttosto, l’interfaccia politica di questa struttura a metà strada tra militari e imprenditori. Il tutto con quei margini di reticenza e ambiguità propri di un personaggio che non avrebbe sfigurato fra i dignitari di una corte rinascimentale.

Dunque non tutto quello che il Noto servizio ha fatto può essere ascritto al Divo Giulio, e non è affatto detto che ogni sua volontà sia stata un’ordine o, per lo meno, non molto di più di quanto non lo fosse per il servizio segreto militare, che gli fu a tratti amico e a tratti nemico, in qualche componente alleato e in altre avversario.
E non sempre gli avversari furono quelli di cui l’esponente democristiano dovette preoccuparsi di più. Per esempio, si vedrà come gli andreottiani Maletti e La Bruna furono quelli che gli tesero una delle trappole peggiori e che gli causarono più imbarazzo.

Nel mondo dell’intelligence nulla è per sempre e nulla è mai come sembra.

Tuttavia, il Noto servizio fu una delle leve più delicate del sistema di potere andreottiano.”

Nel mio piccolo, da anni mi chiedo perché uno schizofrenico celato, afflitto da permanente emi-crania, giocatore accanito di cavalli, da sempre attratto da personaggi quali Vittorio Sbardella, Salvo Lima e prima ancora Michele Sindona e Licio Gelli, abbia, con una generosità sospetta, voluto mettere sull’avviso Pio Piccini, fratello di Sergio, noto lobbista artefice della crescita esponenziale di Callisto Tanzi e del gruppo Parmalat, della pericolosità di una frequentazione con il sottoscritto. A detta del Divo Giulio e di qualche sgangherata organizzazione sopravvissuta alla rottamazione del Noto servizio, Grani avvicinava e corteggiava gli imprenditori, soprattutto quelli che operavano nel settore dell’Information Tecnology, perché in realtà, era un doppio-giochista pronto a vendere tecnologia a paesi canaglia (in black list) del mondo arabo.

Questa notizia fu fatta pervenire a Pio Piccini tramite Massimiliano Miletti proprio mentre frequentavo Piccini nel vano tentativo di fargli cessare i comportamenti umani, etici, imprenditoriali che poi lo hanno portato nelle patrie galere. Il Miletti, a sua volta, raccontò di essere stato avvicinato, per l’occasione, da una signora, nota al Miletti come organica ai “servizi segreti” e rispondente al generico e comunissimo nome lombardo di Brambilla.

Nessuno al mondo avrebbe creduto a una cazzata di questo genere tranne il sottoscritto che riuscì ad appurare l’esistenza di questa signora e del suo ruolo di contatto tra “l’ambiente” e il citato Massimiliano Miletti e di una consolidata amicizia con il senatore Giulio Andreotti. Torneremo, nel proseguo di questo racconto, su Miletti e i suoi diversi mestieri.

Da questo episodio mi chiedo come si faccia a strumentalizzare in modo diffamatorio le mie scelte culturali fino a farmi diventare un giorno agente servo dei terroristi arabi e un giorno sospettato, come hai saputo insinuare tu perfido Amalek, di essere amico degli ebrei e del Mossad.

False notizie = squallide manovre, ci ricorda, sin dal 1948, Giulio Andreotti.

Per tornare al Divo Giulio, perché un uomo tanto complesso, che si presume indaffarato in altro, sente il bisogno di calunniare una persona marginale quale posso essere io?

Forse Giulio Andreotti che mi incontrava spesso (per quasi dieci anni siamo stati vicini di ufficio, lui al numero 26 di piazza San Lorenzo in Lucina, io al 13 di via del Leone) vedendo con quale rispettosa familiarità gli uomini della sua scorta mi salutavano, si sarà informato su di me, venendo così a sapere, non tanto delle mie scelte politiche pacciardiane, ma del fatto che avevo lavorato, come ho detto in altro punto di questo racconto, con Carmine Mino Pecorelli.
Giulio Andreotti che, giustamente o ingiustamente, è stato sospettato di essere il mandante morale dell’omicidio Pecorelli, può avermi considerato un uomo pericolosissimo. Per lui.

Anche perché gli sgangherati nullafacenti dei servizi a cui si sarà rivolto il Divo Giulio avrebbero potuto confermargli che, oltre ad essere quella canaglia che sono, ero noto per essere stato l’ispiratore della geniale pubblicazione realizzata dall’ing. (informatico) Piero Lo Sardo alias Micael Pulcinari, alias Piero Pera, alias Zut, (fondatore con altri liberi intellettuali dell’insuperabile “Il Male”) intitolata “L’omicidio Pecorelli (o della poetica del ricatto)”. Piero Lo Sardo, in quella occasione, si volle chiamare Micael Pulcinari con l’autoironia di un vero napoletano quale era.

Dalle pagine di O.P., Piero Lo Sardo riuscì a delineare una sequenza appassionante di nessi logici alla ricerca dei mandanti dell’omicidio Pecorelli. Uno oscuro giornalista aveva scoperto le trame dei più clamorosi intrighi della seconda repubblica e gli avevano sparato in bocca. Piero Lo Sardo ripercorrendo le pagine che avevano portato alla morte Mino Pecorelli sostenne che balzava fuori, a sua insaputa, il nome del suo assassino.

Oreste Grani
 
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Oreste Grani
view post Posted on 11/8/2012, 18:38




“Il segreto porta assuefazione”, ha dichiarato il già agente segreto britannico John Le Carrè: l’abitudine al segreto, la tranquillità di poter ricorrere alla secretazione per evitare indagini e fastidi, fa perdere il senso del limite e il rapporto etico con la verità, fino a dimenticare le ragioni stesse della segretezza, con il rischio che questa possa operare come un “principio di tirannia”, come suggeriva lo scrittore statunitense Robert Heinlein.

Si avvicina l’anniversario della fuga di Stato della iena nazista Herbert Kappler avvenuta il 15 agosto del 1977 e metto, volutamente, queste frasi ad esordio della puntata odierna particolarmente complessa. Le pagine che seguono sono tutte dedicate alla necessità che il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano metta in atto ciò che da mesi annuncia ma di fatto, per mille motivi non fa: “aprire gli armadi” prima che il suo settennato cessi e che perda perciò il potere che oggi gli è costituzionalmente conferito. Il Presidente della Repubblica è il capo delle Forze Armate ed è ora che agisca da tale. A mio giudizio deve dare ordini e, chi di dovere, non potrà non ubbidire. Con onore e con pieno appoggio popolare.
Torniamo a Ipazietta come, con tenerezza protettiva, per anni l’ho potuta chiamare.

In data non sospetta veniva redatto il testo che segue e pubblicato nel sito di Ipazia Preveggenza Tecnologica:
“Il diritto all’informazione, soggettivo e sociale, è uno dei diritti fondamentali della Costituzione italiana, della libertà e della democrazia. Ogni azione intrapresa dallo Stato per difendere l’integrità della Repubblica, le Istituzioni previste dalla Costituzione e l’indipendenza dello Stato stesso, compresa la secretazione di fatti, documenti e testimonianze, così come previsto anche dal decreto del Presidente del Consiglio del 16 aprile 2008, non può che trovare nelle finalità indicate, e primariamente nella Carta Costituzionale, il proprio limite applicativo.
Il Segreto di Stato deve soddisfare i requisiti esclusivi di tutela della democrazia, e quindi, non può essere utilizzato in modo estensivo arbitrario, tale da ledere il diritto fondamentale all’informazione dei cittadini. A distanza di oltre trent’anni, nessun fatto, documento o testimonianza può essere legittimamente ritenuto pericoloso per la stabilità di una democrazia, al punto da indurre a violare un diritto basilare della democrazia stessa, qual è appunto, il diritto all’informazione, con il quale il diritto alla sicurezza può entrare in concorrenza soltanto per un periodo eccezionale, in cui il pericolo è attuale, senza altrimenti rischiare di trasformarsi in un abuso, un intralcio alla giustizia e una censura. Il Segreto di Stato, insomma, deve essere una condizione assolutamente straordinaria, limitata ad eventi di effettiva gravità per la sicurezza della Repubblica, nell’interesse esclusivo dei cittadini italiani. Non può essere esercitato come una sorta di rivendicazione di “alegalità”, di sottrazione al controllo del proprio operato per gli organi dello Stato, questa sì pericolosa per la Repubblica e per la democrazia.
“Il segreto porta assuefazione”, ha dichiarato il già agente segreto britannico John Le Carrè: l’abitudine al segreto, la tranquillità di poter ricorrere alla secretazione per evitare indagini e fastidi, fa perdere il senso del limite e il rapporto etico con la verità, fino a dimenticare le ragioni stesse della segretezza, con il rischio che questa possa operare come un “principio di tirannia”, come suggeriva lo scrittore statunitense Robert Heinlein.
Nel luglio 1994, di fronte all’Assemblea del Senato, il ministro dell’Interno Roberto Maroni riconosceva come vi fossero “comportamenti all’interno dei Servizi non in linea con quanto previsto dalla legge” ed “estranei all’attività istituzionale dei Servizi”. Gli ultimi quarant’anni della storia repubblicana italiana, e non soltanto italiana, invitano alla prudenza e alla limitazione estrema del ricorso al Segreto di Stato, il cui utilizzo è servito pure a depistare indagini giudiziarie, coprire poteri occulti e favorire interesse e profitti di parte. Libero Mancuso, pubblico ministero per i depistaggi relativi alla strage di Bologna e al caso Italicus, ha denunciato, per esempio, le collusioni tra i vertici militari italiani, la loggia P2 e il terrorismo.
La legge 124 del 2007 fissa in 15 anni, prorogabili a 30, il limite temporale per il Segreto di Stato.
Un limite già anche troppo esteso, che deve essere assolutamente rispettato, per la difesa della Legge, della Costituzione, della Democrazia. La stessa legge stabilisce anche limiti oggettivi per la secretazione, per informazioni relative a fatti eversivi dell’ordine costituzionale, terrorismo, delitti di strage, associazione a delinquere di stampo mafioso, scambio elettorale di stampo politico-mafioso.

Gli italiani hanno il diritto di conoscere, finalmente, la verità sulle stragi di Piazza Fontana e Piazza della Loggia, di Bologna, di Ustica, per quel che gli organi di informazione e di prevenzione conoscono e hanno accertato su questi eventi che hanno scosso e segnato indelebilmente la vita del nostro Paese, marchiando di sangue innocente quanto inconsapevole la memoria collettiva. Scostare il velo nero dell’omissis sui tragici eventi della storia italiana è un atto dovuto, sul piano giuridico ed etico-civile, nonché una scelta obbligata per riabilitare l’autorità dello Stato e restituire fiducia nella politica presso i cittadini. Negare questo diritto, nel procrastinarlo oltremisura, costituirebbe una violazione della Costituzione, un attentato alla certezza della legge e una ferita inquietante all’assetto democratico della Repubblica italiana, già fragile per i troppi misteri che rendono impraticabile una chiara e autentica descrizione storica.

Si tratterebbe, peraltro, di una grave ingenuità da parte dei responsabili dell’amministrazione pubblica e, quindi, di una debolezza, malcelata in un esercizio di forza. La “tempesta Wikileaks”, di queste ore, con la pubblicazione in rete di oltre 2000 documenti riservati del Dipartimento di Stato americano, delle ambasciate statunitensi nel mondo, rivela come, nel tempo di Internet, niente può restare segreto. È preferibile, allora, che lo Stato porti a conoscenza diretta i propri cittadini delle informazioni che riguardano la vita civile, piuttosto che queste circolino in modo selvaggio e caotico, quando non strumentale e opportunistico, causando confusione, interpretazioni errate, equivoci e ambiguità, fino anche ad alimentare panico e perfino forze eversive, sì pericolose per la sicurezza nazionale.

Il segreto è di per sé un rischio. Per essere mantenuto impone comportamenti anomali e scelte soggettive, spesso ai limiti della legalità e al di sopra delle regole, rendendo difficile l’individuazione e, soprattutto, la punizione di chi ne faccia un uso distorto. La verità è un pericolo soltanto per chi ha qualcosa da nascondere. Per gli istituti di Intelligence è la sola via percorribile per ritrovare credibilità e autorevolezza presso i cittadini, in difesa della Repubblica, al cui servizio esclusivo sono chiamati ad operare, con professionalità e onestà, nella legalità e, quindi, nella possibilità di controllo e nel dovere di rendere conto del proprio agire.”


Come vedi, lurido e silente infangatore, nonostante l’ostracismo professionale che mi ha colpito dopo il tuo attacco proditorio, ho ancora la forza di dire e scrivere quello che penso e quello per cui ho sacrificato tutta la mia vita più quella delle persone a me vicine e da me amate. Come vedi ricordi, anniversari, documenti riscontrabili sono gli strumenti strategici del mio agire.

Colgo così l’occasione dell’anniversario della Fuga di Stato per cominciare a dire la mia sulla Germania e sulla fase geopolitica e finanziaria che ci prepariamo a vivere. Dico “ci prepariamo” perché, come da anni penso e annuncio, “il peggio deve ancora venire”.

Caro perfido Amalek, quando cercavo il movente del tuo agire contro Ipazia Preveggenza Tecnologica ho pensato che tu avessi avuto in odio particolare il fatto che in Ipazia PT fossimo non solo culturalmente contro tutti i fondamentalismi ma, in particolare, nemici dei bruciatori di libri e, quindi, delle Internazionali Nere sotto qualunque forma si stessero riorganizzando per prima bruciare i libri e poi gli uomini. Ho pensato che ti fossi deciso a colpirmi/ci quando per la web tv Ipazia ideammo la rubrica “Fare luce su” offrendola, come spazio libero, a Stefania Limiti, autrice, tra l’altro, di un riuscitissimo libro (l’Anello della Repubblica) dedicato al mondo del Noto Servizio e al suo presunto referente politico Giulio Andreotti.

Stefania Limiti è stata intervistata a cura della redazione di Ipazia web tv sulla Fuga di Stato della iena Kappler perché le donne e uomini di Ipazia ritenevano che quell’episodio sarebbe tornato di grande attualità.
Ho scritto “attualità” non solo perché la fuga di Kappler avvenne in agosto e con un gran caldo (era il 15 agosto del 1977) ma perché, in quelle giornate torride l’autosufficienza finanziaria del nostro paese era strettamente legata ai poteri del mondo bancario tedesco.

Perché mi dilungo così su questi ricordi e su questo episodio?
Perché la fuga di Kappler, oltre ad essere ciò che è stata, ci riporta alla strage delle Fosse Ardeatine e a quanto noi di Ipazia Preveggenza Tecnologica abbiamo voluto, non casualmente, mettere alla base della data scelta per il convegno “Lo Stato Intelligente. I finanziamenti europei per l’innovazione e per la sicurezza” tenutosi, come sai perfido amico dei nazisti, il 23 marzo 2012 e di cui puoi leggere il documento che è alla base della nostra decisione:

“23 marzo, una data scelta non a caso.
Il 23 marzo 1944, a seguito di un attentato in via Rasella, a Roma, nel quale morivano 32 soldati dell’esercito tedesco, prendeva il via una rappresaglia che avrebbe portato all’uccisione di 335 italiani, tra civili e militari, dei quali 75 di religione ebraica.
Tra tutte le vite che interruppero il loro corso, abbiamo scelto di mettere a fuoco quella del Tenente colonnello dei Carabineri Reali Manfredi Talamo (nato a Castellammare di Stabia, il 2 gennaio 1895, fucilato alle Fosse Ardeatine, a Roma, il 24 marzo 1944), Medaglia d’Oro al valor militare alla memoria.
Così si legge in una nota dell’A.N.P.I: Nel giugno del 1938, l'ufficiale dei CC era stato assegnato al SIM (Servizio informazioni militari) e, prima che l'Italia entrasse nella Seconda Guerra mondiale, si era occupato soprattutto della decifrazione di documenti sottratti alle ambasciate straniere (fu coordinata da Talamo la sottrazione del Black Code dall’Ambasciata americana a Roma). Durante la sua attività di controspionaggio, Talamo, nell'estate del 1942, durante un'incursione nell'ambasciata svizzera, scoprì che l'addetto culturale tedesco Kurt Saurer era un doppiogiochista. La scoperta fece andare su tutte le furie il capo del servizio di sicurezza tedesco, l'ufficiale delle SS Herbert Kappler, che pretese dal colonnello Talamo, senza ottenerlo, il più completo riserbo sulla vicenda. Un anno dopo, con l'armistizio, l'ufficiale italiano – fedele al giuramento prestato – entrò nella Resistenza. Lavorò col Fronte militare clandestino guidato dal colonnello Montezemolo, ma il 5 ottobre cadde nelle mani dei tedeschi. Incarcerato e torturato, Talamo non parlò. Così, Kappler, inserendo il nome dell'ufficiale del SIM tra quelli di coloro che sarebbero stati trucidati alle Ardeatine, ebbe modo di consumare la sua vendetta. La decorazione alla memoria di Manfredi Talamo, al quale a Roma è stato intitolato un Largo, recita: "Nell'assolvere delicate rischiose mansioni, eccelleva per rare virtù militari ed impareggiabile senso del dovere, rendendo al Paese, in pace e in guerra, servizi di inestimabile valore. Caduto in sospetto della polizia tedesca che ne ordinava l'arresto, sopportava stoicamente prolungate torture, senza svelare alcun segreto sulle organizzazioni clandestine e sui loro dirigenti. Condotto alla fucilazione, alle Fosse Ardeatine, dava sublime esempio di spirito di sacrificio, di incrollabile fermezza, di alte e pure idealità, santificate dal martirio e dall'olocausto della vita".

Caro amico dei nazisti e nemico degli eroi dell’Arma dei Carabinieri, a me sembri sempre di più un complice oggettivo di tutti gli approfittatori che, cooptati per pseudo rapporti di fiducia nei servizi segreti italiani, si sono dedicati invece che ai fini istituzionali del servizio in primis all’uso disinvolto della cassa.
Riprendiamo la riflessione su Kappler. Cari lettori immaginate la gravità del comportamento di ufficiali dei Carabinieri che, scientemente, avessero deciso di favorire la fuga della iena Kappler?

Qui si fa chiara la tesi di Stefania Limiti e Aldo Giannuli: l’incarico doveva essere affidato a una struttura/non struttura che, come ormai è provato, si chiamava il Noto Servizio. L’esistenza del Noto Servizio o Anello è “documentata” con il ritrovamento in uffici “coperti” e dimenticati, nel maggio del 1998, dell’appunto anonimo del 4 aprile del 1972 che inizia con le parole “… questa è la storia di un servizio informazioni che opera in Italia dalla fine della Guerra e che è stato creato per volontà dell’ex capo del SIM generale Roatta.”

La Nota riservata così proseguiva: alla fine del 1943, Roatta presentò ad alcuni suoi fidati collaboratori un ufficiale di origine polacca che vestiva la divisa dell’esercito russo e che era giunto al seguito della rappresentanza sovietica presso il governo italiano. Si chiama Otimski e vive a Tel Aviv (cose complicate, stupido e superficiale Amalek. ndr).
Quando Roatta fu arrestato, Otimski prese il comando del servizio che era stato costituito esclusivamente da elementi provenienti dall’esercito, dalla marina e dell’aviazione. Compito del servizio fu sempre quello di ostacolare l’avanzata delle sinistre e di impedire una sostanziale modifica della situazione politica italiana…Negli anni passati, il servizio si è sempre meglio organizzato, anche se i suoi effettivi sono rimasti in numero molto limitato: attualmente sono 164, dei quali una cinquantina abitano in Alta Italia e fanno capo a un costruttore edile, Sigfrido Battaini. Lui dispone di notevoli masse di denaro e tiene il proprio deposito armi, munizioni e automezzi presso la caserma dei carabinieri di via della Moscova. Il servizio dispone anche di un aereo e di un elicottero che sono depositati presso un campo di aviazione in territorio svizzero, a pochi chilometri dal confine italiano. Nel corso degli anni, il servizio ha arruolato alcuni elementi fidati tra i quali ho potuto individuare il noto investigatore Tom Ponzi (adesso cominci a capire cretino infangatore perché molte pagine addietro l’ho citato? ndr), il costruttore edile di Lodi, Lo Risi, l’industriale chimico Boate, l’ex ufficiale pilota, ora morto, Comoni e Adalberto Titta…Tutto fa capo, in Alta Italia, al citato Battaini. A Roma, fa parte del servizio il noto Felice Fulchignoni, ma non sono riuscito a sapere di più, anche se ritengo che del servizio faccia parte un certo Luigi Fortunati, che è uno dei sopravvissuti alla conta prima delle fucilazioni alle Fosse Ardeatine…".

La nota informativa è redatta dal giornalista del "Corriere della sera" Alberto Grisolia, confidente della divisione Affari riservati del ministero degli Interni con il criptonimo di ‘Giornalista’.”
Che fantasia quei farabutti degli Affari riservati eredi degli archivi dell’Ovra.

Per poter comprendere ulteriormente la gravità dell’episodio delle complicità nella fuga di Kappler bisogna andare con la memoria all’attentato di via Rasella, e ai suoi partecipanti (il comandante Carlo Salinari detto "Spartaco", Franco Calamandrei ("Cola"), Giulio Cortini ("Cesare"), Laura Garrone Cortini ("Caterina"), Duilio Grigioni, Marisa Musu ("Rosa"), Ernesto Borghesi, Mario Fiorentini ("Giovanni"), Lucia Ottobrini ("Maria"), Carla Capponi ("Elena"), Rosario Bentivegna ("Paolo"), Raoul Falcioni, Silvio Serra, Francesco Curreli, Fernando Vitagliano ("Fernandino"), Pasquale Balsamo e Guglielmo Blasi) e al pensiero ineguagliato di Carla Capponi che nel libro “Con cuore di donna” ci spiega come trovò le ragioni che la portarono a compiere quell’attacco: “Ripensai al bombardamento di San Lorenzo, a quella guerra ingiusta e terribile, alle voci dei bambini del brefotrofio imprigionati dal crollo, allo strazio delle distruzioni che si vedevano ovunque e di cui avevamo notizia ogni giorno; ai nostri compagni fucilati, torturati a via Tasso; a tutti i deportati di cui non avevamo più notizia; ai duemila ebrei nei lager [...1. Per tutti coloro che avevano sofferto ed erano morti ingiustamente, che erano ingiustamente perseguitati, per loro dovevo battermi”.

A questi pensieri “sufficienti” voglio aggiungere lo stralcio dell’interrogatorio a Kesserling preso dagli atti del processo Kappler al tribunale militare di Roma:

“D. (Domanda): Faceste qualche appello alla popolazione romana o ai responsabili dell'attentato prima di ordinare la rappresaglia?
K. (Kesselring): Prima no.
D.: Avvisaste la popolazione romana che stavate per ordinare rappresaglie nella proporzione di uno a dieci?
K.: No. [...]
D.: Ma voi avreste potuto dire «se la popolazione romana non consegna entro un dato termine il responsabile dell'attentato fucilerò dieci romani per ogni tedesco ucciso»?
K.: Ora, in tempi più tranquilli , [...) devo dire che l'idea sarebbe stata molto buona.
D.: Ma non lo faceste?
K.: No, non lo facemmo.

Leggende di propaganda antiresistenziale ed antiebraica vogliono che le autorità tedesche, prima di scatenare la rappresaglia delle Fosse Ardeatine, abbiano diffuso appelli ai responsabili dell’attacco, in particolar modo attraverso manifesti affissi in città, in cui si invitavano i partigiani a costituirsi onde evitare conseguenze per la popolazione civile.

“[...) devo dire che l'idea sarebbe stata molto buona” disse Kesselring ma non lo fece. Ne lui, ne Kappler.
I manifesti furono affissi ma erano firmati con una frase perentoria: l’ordinanza (di rappresaglia) è già stata eseguita.

Oreste Grani
 
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Oreste Grani
view post Posted on 13/8/2012, 16:59





“Insomma, dice Aldo Giannuli, nel suo libro “il Noto servizio, Giulio Andreotti e il caso Moro”, se mancano elementi diretti a sostegno di una conoscenza del Noto servizio ci sono fin troppi indizi per dedurre che anche il gruppo dirigente comunista fosse perfettamente a conoscenza della sua esistenza e del suo ruolo. Diversamente, dovremmo pensare di averlo parecchio sopravvalutato in questi decenni.
Ne deduciamo che l'intero sistema politico, almeno nei suoi vertici, era consapevole dell'esistenza di questo servizio anomalo, che continuò a essere a lungo il silenzioso convitato di pietra che sedeva con loro al tavolo delle trattative.

Non stupisce che nessuno abbia detto nulla in proposito all'epoca dei fatti: sapere non significa sempre poter provare, e non è detto che sapere dell'esistenza di qualcosa significhi sapere quali siano la sua esatta funzione e il suo peso e, tanto meno, le sue attività. Peraltro, una denuncia del genere poteva far temere un conflitto molto pericoloso e magari ciò sarebbe risultato pregiudizievole alla politica delle alleanze. Dunque, molti motivi più o meno pratici, più o meno nobili, più o meno di opportunità hanno dettato la scelta del silenzio.
Quello che invece rimane da spiegare è come il silenzio sia durato anche molto dopo i fatti. Nessuno dei massimi esponenti di Dc, Pci e Psi vissuto fino a epoca recente e, comunque, dopo il crollo della Prima repubblica, ha mai ritenuto di far parola di questo servizio.

Così, più in generale, delle vicende della strategia della tensione, che sono rimaste il «segreto condiviso» della casta politica della Prima repubblica. C'è chi ha invocato l'opportunità di scrivere una «storia condivisa»: non sappiamo quanto ciò sia auspicabile e fino a che punto debba spingersi la condivisione, ma è certo che tale condivisione deve passare per la conoscenza dei fatti. La precondizione della storia condivisa è la fine del segreto condiviso che impedisce di conoscerli.
Ma questo atto di onestà intellettuale non è stato compiuto dai protagonisti della Prima repubblica né davanti alla magistratura, né davanti al parlamento, né davanti all'opinione pubblica per il tramite della stampa. Un esempio per tutti: Forlani. A distanza di trentanove anni dal suo discorso di La Spezia non ha ancora detto ciò che sapeva di quel «pericoloso tentativo», dietro il quale abbiamo riconosciuto la mano di Battaini, Sepolta da tempo la strategia della tensione, morti gran parte dei suoi protagonisti, finita da un ventennio la Dc, scoperto il Noto servizio di Battaini e la più che probabile fonte della documentazione a sua disposizione, potrebbe anche decidersi a dire finalmente quel che sa. E così altri. Ma non ci speriamo: l'abitudine al silenzio è molto di più di una scelta dettata da particolari esigenze, è un costume mentale di quella classe politica cementata dal monopolio di conoscenze da non condividere con altri.

Dove la classe dirigente della Prima repubblica (Comunque infinitamente superiore a quella che le è succeduta) dimostra pienamente di non essere stata pari al suo compito è nella memorialistica e nei diari di tanti protagonisti di quella stagione. La memoria personale è un fatto intimo che richiede delicatezza, ma anche decisione, e il suo svelamento agli altri presuppone capacità autocritica e grande coraggio morale. Nessuno si aspettava da quegli uomini le Confessioni di Agostino d'Ippona, ma era lecito attendersi qualcosa di più del banale «mettersi in bella copia» e della «foto di gruppo con amici» che ne è venuta fuori. Una certa dose di narcisismo è ammessa in tutti i grandi memorialisti, da Giulio Cesare a Giolitti, ma solo a patto che questa sia compensata da un effettivo bagaglio di informazioni non conosciute, mentre il valore aggiunto cognitivo delle memorie dei protagonisti della Prima repubblica solo in pochissime occasioni va oltre lo zero.

In parte, quei memorialisti sono stati inibiti dal clima di guerra civile latente che ha creato quell'aura di indicibilità alla base di tanti silenzi. Ma questo può valere fino alla fine degli anni Settanta, al più i primi Ottanta. Finito il terrorismo e normalizzata, in qualche modo, la tensione interna, era possibile e doveroso aprire l'armadio degli scheletri e scoperchiare il pozzo nero della memoria repubblicana.
Infatti, lasciando da parte quelli che sono scomparsi prima della fine della Prima repubblica e che avevano giustificazioni contingenti per girare intorno a quel pozzo senza scoperchiato (Pietro Nenni,Giorgio Amendola, Luigi Longo, Umberto Terracini), nessuno, fra quanti hanno pubblicato in un momento successivo le loro memorie (Paolo Emilio Taviani, Francesco Cossiga, Mariano Rumor, Giulio Andreotti, Paolo Battino Vittorelli, Armando Cossutta, Pietro Ingrao, Gianni Cervetti, Ugo Pecchioli, per citare solo i più noti), ha fornito informazioni sostanziali sugli aspetti più scabrosi della storia repubblicana. E la grande maggioranza non ha lasciato testimonianze di sorta. Alcuni avranno ignorato tutto, altri avranno subodorato ma senza avere le prove, altri ancora non si saranno resi conto di
quel che gli accadeva intorno - non ci fanno una bella figura, ma è possibile che per alcuni sia vero - ma possibile che nessuno avesse nulla di significativo da dire su certi retroscena della politica repubblicana?

Come è noto, la classe dirigente della Prima repubblica cadde sugli scandali della corruzione politica. Il furto di denaro pubblico è certamente un malcostume assai grave. Ma c'è un altro furto che apporta danni ben peggiori, ed è quello di memoria, che condanna un paese a non superare il suo passato e a cristallizzarsi nelle reciproche delegittimazioni. In una parola: a spezzare la sua identità.

Sul primo tipo di furto si può anche avere qualche indulgenza, sul secondo no.
D'altro canto, se gli uomini del sistema non sono stati capaci di verità, anche i loro aspiranti eversori non sono stati da meno: tanto a destra quanto a sinistra la pur copiosa letteratura memorialistica non abbonda di rivelazioni e non trasuda onestà intellettuale. Praticamente, al di là di Vincenzo Vinciguerra, Alberto Franceschini e pochissimi altri meno noti, non sono in molti a essersi presentati all'appuntamento con la verità. In particolare, gli uomini che gestirono il rapimento di Moro continuano a restare fedeli a una versione palesemente insostenibile dei fatti per quella «sorta di complicità con gli uomini del potere» di cui ci ha avvertiti Curcio. Con la sciagurata avventura della lotta annata , i brigatisti furono i principali liquidatori della stagione dei movimenti. E con il loro persistente silenzio servono ancora oggi quella classe politica che li utilizzò per il suo progetto di restaurazione. Anche loro sono parte del silenzio condiviso, e sarebbe ingiusto dimenticarli.

Questo esercizio di scavo nella memoria nascosta dell'Italia ha una sua precisa funzione: aprire un discorso sulla natura del potere nel nostro paese e sul futuro della sua democrazia.

Quest'anno cade il 150° della nascita dell'Italia unita, ma raramente si è visto anniversario peggio ricordato: noiosissime celebrazioni istituzionali si alternano alle sguaiataggini leghiste, esplicitamente rivolte a delegittimare la stessa idea di Unità. E in questo i leghisti ricevono il generoso contributo di molti autori, anche di sinistra, che fanno a gara per scovare le magagne del Risorgimento: la repressione del brigantaggio (e qualcuno scambia Ninco Nanco per Che Guevara), le ombre sulla morte di Anita Garibaldi, le appropriazioni indebite dei garibaldini, il ruolo occulto della massoneria, la tassa sul macinato e le politiche antipopolari dei Savoia. Tutte cose vere, ma anche risapute. Sulla repressione del brigantaggio scrisse Aldo De Jaco mezzo secolo fa, e ben più felicemente dei suoi tardi epigoni: ricordiamo molti altri testi o film come quello di Florestano Vancini su Bronte. Quelle opere, al tempo, costituirono una grande operazione culturale che spazzava via la retorica patriottarda di eredità fascista dimostrando che l'Unità d'Italia fu una cosa giusta, ma realizzata molto male. Oggi ci si limita al loro riciclaggio.

A distanza di cinquant'anni, non pare ci sia alcun eccesso di nazionalismo da curare - la necessità sembra piuttosto quella di fronteggiare il populismo storiografico leghista. Per cui è venuto semmai il momento di dire che l'Unità d'Italia fu realizzata nel peggiore dei modi, ma fu un'ottima cosa. Non sono certo quelle del Risorgimento le ombre della nostra storia nazionale, ma altre, ben più recenti e meno conosciute. Dobbiamo far fronte a un'ondata di «cretinismo storiografico» e, come al solito, quello peggiore è il cretino di sinistra.

In questo modo sta andando persa un'ottima occasione per fare un bilancio autentico di un secolo e mezzo di vita unitaria. Un bel tema da sviluppare sarebbe quello delle aspirazioni tradite del Risorgimento, che immaginava un'Italia moderna, laica e – almeno nella sua ala più avanzata - repubblicana. Centocinquant'anni dopo ci troviamo un paese che, pur avendo realizzato progressi spettacolari e raggiunto una crescita culturale fra le più forti d'Europa, resta ancora caratterizzato da forti persistenze premoderne come l'asfissiante familismo e l'invincibile corporativismo - nel quale persiste il dualismo economico fra le diverse aree regionali - che non ha una pubblica amministrazione degna di uno Stato moderno, che deve ancora difendersi dalle ingerenze del potere ecclesiastico, che ignora il merito e seleziona le classi dirigenti solo per via familiare, con un sistema universitario corrotto e dissestato, con la criminalità organizzata più radicata del mondo, con un'impudente finanza corsara, con una corruzione politica ormai sistemica, con una giustizia da Terzo mondo.
In tutto questo c'è una responsabilità grave delle classi dirigenti, che per rutto il corso della storia unitaria non hanno conosciuto alcun sostanziale rinnovamento. È l'ora di aprire un processo contro di loro, per interrompere l'attuale decadenza e avviare un vero rinnovamento radicale del paese. ………..
La vicenda del Noto servizio è un pezzo non trascurabile di questa storia, e ci è sembrato utile raccontarla."

Il prof. Aldo Giannuli, come vedete, gliele canta a tutti con una serietà, amor di verità e amor di Patria che mi hanno, da sempre, affascinato.
A natale del 2009 comprai un certo numero di copie del suo libro “Come funzionano i Servizi Segreti” e le regalai ai collaboratori di Ipazia PT e qualche amico che stimavo.
Spese pazze per la mia cultura frugale ma mai soldi furono spesi meglio.
Così, devo dire, del denaro investito nei libri di Stefania Limiti e di Paolo Cucchiarelli.
Tre valenti ricercatori e scrittori che sono apparsi, ai miei occhi disinformati, una sola squadra di grande valore. Le questioni, tra loro, su piazza Fontana, vengono dopo. Tanto che a questa squadra mi preparavo a rivolgermi per offrire loro (se l’avessero voluta) l’opportunità di lavorare come docenti nella scuola di intelligence che mi preparavo a far nascere. Di Stefania Limiti ho già detto a proposito della felice collaborazione in Ipazia web tv e oggi, voglio utilizzare ulteriormente, un lungo passo del suo “l’Anello della Repubblica” per ribadire perché non mi sono potuto fidare, negli ultimi quarant’anni, di chi era preposto istituzionalmente alla sicurezza del Paese obbligandomi ad aspettare il determinarsi di condizioni sufficienti perché la “necessaria intelligence culturale” avesse cittadinanza.

Scrive Stefania Limiti: “Era l'agosto del 1977 e nelle stanze del potere si discuteva di come sbrigare un compito imbarazzante: bisognava riconsegnare il detenuto nazista mai pentito Herbert Kappler alla Germania che, in cambio, avrebbe rimosso il vero per la concessione di un consistente prestito di denaro di cui l'Italia aveva un disperato bisogno. Tutta l'operazione fu affidata all'Anello: era troppo compromettente per essere assegnata ai servizi ufficiali.
Se la verità fosse saltata fuori, in quel caldo scorcio di agosto del 1977, ne sarebbe andato di mezzo lo Stato. Agli uomini dell'Anello, invece, nessuno avrebbe potuto chieder conto delle proprie azioni e frequentazioni.

L’affare era tanto «sporco» quanto non rinviabile: il governo italiano - per la terza volta dalla nascita della Repubblica guidato da Giulio Andreotti, in carica dal 29 luglio 1976 all'11 marzo del 1978 - aveva deciso che doveva andare in porto ma nessuno doveva dubitare delle istituzioni. Perciò anche i servizi segreti ufficiali non potevano assumersi l'intera responsabilità di questa incombenza. Meglio appaltarla al <noto servizio»: se anche Titta o qualcuno dei suoi fossero stati colti sul fatto, la responsabilità sarebbe stata solo ed esclusivamente loro.

L’ex colonnello delle SS stava scontando la sua condanna all'ergastolo: dopo una lunga detenzione nel carcere di Gaeta, nel 1977, malato di cancro, ottenne di essere ricoverato all'ospedale militare di Roma, il Celio, da cui fuggì all'alba del 15 agosto di quello stesso anno.
Kappler occupava una stanza al terzo piano del reparto chirurgia, a pochi passi da altre due stanze che ospitavano degenti molto particolari, due protagonisti delle trame nere, il colonnello Amos Spiazzi e il capitano Salvatore Pecorella, ambedue direttamente coinvolti nel golpe Borghese, e il primo esponente di spicco della Rosa dei Venti, «diretta emanazione di un servizio segreto sovranazionale della Nato che si sovrapponeva agli organi istituzionali dello Stato».
La degenza del colonnello Spiazzi in quel momento e in quel luogo sarà stata senz'altro un caso, ma vale la pena ricordare che nel 1973 la stessa Rosa dei Venti aveva pensato di rapire Kappler.

Alla luce di queste rivelazioni, la presenza di Spiazzi, forse, avrebbe potuto assumere un valore investigativo più importante. E se allora il ministro della Difesa si limitò a parlare delle responsabilità dei servizi segreti, colpevoli di aver sottovalutato la necessità di sorvegliare il detenuto Kappler, le ipotesi sulle complicità potrebbero essere ancora più inquietanti.

Dalle affermazioni di Cavallaro emerge una realtà più complessa: il Sid aveva predisposto i piani per l'evasione di Kappler già quattro anni fa [nel 1973, Nda]. Sono stati questi «rosaventisti» a confermarlo ricordando che essi stessi vennero attivati per organizzare
la fuga dell'ex colonnello. Il tesoriere della «Rosa», Giampaolo Porta Casucci, incaricò il maggiore Amos Spiazzi. Questi si fece consegnare dettagliate cartine del carcere di Gaeta da Roberto Cavallaro, un altro degli imputati che si spacciava per magistrato militare e aveva libero accesso anche alle carceri. La «missione Gaeta» non andò in porto perché l'istruttoria sulla «Rosa dei venti» spazzò via i principali personaggi.

Ma Amos Spiazzi era lì accanto a Kappler, Cavallaro era in libertà provvisoria e Titta, il capo del «noto servizio», uno degli «acini» descritti dal giudice Tamburino della più «vasta struttura a grappolo» del mondo parallelo dei servizi, pronto con l'automobile per portare a casa l'evaso.
Se nel 1973 l'operazione della «liberazione» di Kappler era stata appaltata alla Rosa dei Venti, è assolutamente «naturale» dopo le inchieste della magistratura su quella organizzazione che quattro anni più tardi, anziché rinunciare, il lavoro venisse appaltato a un altro reparto clandestino, il «noto servizio».
La missione, dunque, sarebbe stata portata a termine da uomini fidati e insospettabili: persone apparentemente comuni, a cui nessuno avrebbe chiesto notizie del boia fuggiasco.

Se dunque ci accingiamo a fare un balzo indietro nella lontana vicenda della fuga di Herbert Kappler, per quanto ancora dolorosa per le coscienze democratiche del nostro paese, non è per ricordarne il clamore ma perché questa storia ci consente di comprendere bene cosa faceva e come operava il «noto servizio» su affari di Stato senza rendere conto a nessuno, se non ai propri referenti politici.

….. Il boia delle Fosse Ardeatine non disse mai una parola di pentimento per quell'eccidio e non perse occasione, anche tramite sua moglie, per ricordare provocatoriamente di aver solo eseguito gli ordini. Sarebbe stato impossibile per lui ottenere un lasciapassare ufficiale del governo.
…. Per Kappler, alla fine, le cose andarono diversamente, anche se nessuno in Italia si sarebbe sognato di sottoscrivere il suo perdono; né il governo, debole sul piano interno e internazionale, era in grado di assumersi la responsabilità politica di un gesto di restituzione del boia. Riportarlo a casa in modo clandestino era un buon affare e il «noto servizio» garantiva la fattibilità della missione e nessun rischio per i mandanti politici.

Il Bel Paese già dal 1976 si trovava in una fase politica molto delicata. Dopo il vertice del G7 di Portorico," i grandi dell'Occidente - Francia, Inghilterra, Germania e Stati Uniti avevano messo in guardia l'Italia: non sarebbero stati accettati cambiamenti della tradizionale linea di politica estera. C'era già odore di compromesso storico e la Dc, costantemente sotto la lente d'osservazione di Washington, non poteva permettersi di alzare troppo la voce di fronte alle insistenti richieste di un alleato come la Germania, dove il ritorno a casa di Kappler non lasciava affatto indifferente l'opinione pubblica. Anzi, la restituzione dell'ex ufficiale nazista era invocata senza alcuno scrupolo dai tedeschi , nonostante le sue indubbie e atroci responsabilità: molti, dai suoi ex camerati ai cittadini comuni, chiedevano di poter riavere Kappler, vecchio e malato, per farlo «morire in Germania». I responsabili politici di quel ritorno ne avrebbero incassato i meriti, alimentando così la macchina dei consensi elettorali. Pure gli evangelici tedeschi si erano messi a raccogliere le firme per far tornare in patria l'ex SS: addirittura i dirigenti dell'Internazionale socialista in patria non perdevano occasione per esprimere il loro favore alla liberazione del nazista.

Il fenomeno non fu marginale, tanto che si parlò di Hitler nostalgie.
Per la prima volta i settimanali illustrati pubblicarono a puntate grandi rievocazioni della vita di Hitler, i suoi colpi di genio, le sue disavventure, i suoi amori e le sue sconfitte.
Il tono degli articoli non era di ammirazione ma neanche di condanna. Nel 1970 Una pubblica richiesta di grazia per il boia delle Fosse Ardeatine, firmata da molti vescovi, era stata indirizzata al capo dello Stato italiano Saragat, ma la questione allora non aveva avuto seguito. Il socialdemocratico Helmut Schmidt ci riprovò con maggiore successo con il presidente del Consiglio Giulio Andreotti.

II governo italiano era ben disposto ad andare incontro agli ex alleati, tuttavia la cosa doveva essere affrontata in un modo adeguato: cioè in nessun caso poteva saltar fuori che l'Italia aveva mercanteggiato un simile bottino o, peggio, che si era arresa di fronte alle pressioni tedesche.
Perciò la tanto richiesta riconsegna del nazista Kappler alla Germania fu una complessa questione di Stato che richiese un impegno straordinario: non si trattava solo di un baratto, soldi contro prigioniero. Per l'Italia la riconsegna dell'eccellente detenuto era una strada obbligata, una questione non trattabile. E non era un malaffare, una sporca storia di bugie all'italiana, di piccole complicità e di fantasiose ricostruzioni da far divorare ai media. La chiave per capire la complessità politica di questo capitolo la fornisce il sette volte presidente del Consiglio: dopo l'incubo del terrorismo [che aveva da poco ammazzato il
Giudice Vittorio Occorsio, Nda], il cancelliere Schmidt rese pubblica una dichiarazione che aveva concordato con Reagan e CalIaghan durante il Vertice di Portorico nella quale, sostanzialmente, si dava l'Italia quasi per spacciata e si diffidava, in nome dell'Occidente, da qualunque apertura ai comunisti.
Schmidt era andato oltre una condanna politica.

Il 13 luglio 1976, dopo il vertice al quale l'Italia aveva partecipato nella persona di Aldo Moro, l'Associated press emetteva il seguente comunicato: "II cancelliere tedesco occidentale Helmut Schmidt ha dichiarato ieri ai giornali che gli Stati Uniti, la Germania occidentale, la Francia e la Gran Bretagna sono d'accordo nel non concedere aiuti economici all'Italia qualora nel governo di Roma entrino esponenti comunisti. Schmidt ha precisato che gli aiuti all'Italia furono il tema principale del summit economico occidentale svoltosi lo scorso mese a Portorico, anche se la questione non venne discussa in presenza del presidente del consiglio Aldo Moro». Una pesante ipoteca pesava dunque su chi doveva far quadrare i conti pubblici: le casse dello Stato, infatti, erano vuote e «lo stesso oratore delle quattro potenze, il cancelliere Schrnidt, sapeva bene che oro italiano era ormai in pegno presso le banche tedesche e che non avevamo più possibili accessi al credito».

Andreotti torna sul tema altre volte, tanto l'episodio aveva pesato sulla politica italiana. In un editoriale del 2000 sulla rivista «30 giorni» da lui diretta, Andreotti scrive: l'incubo del compromesso storico faceva perdere il sonno a molti: in primis ai socialisti che ne parlavano anche in sede della loro Internazionale cercando di contrastare le tendenze verso una ammissione del Pci come osservatore (l'ostacolo fu in seguito superato a trattativa, per così dire, privata tra Occhetto e Craxi). Se Bettino si aspettava di avere gratitudine per questa luce verde sbagliava di grosso. Tanto più che ormai le porte per il Pci erano aperte, con o senza il lasciapassare craxiano. Sul piano dei governi, però, le cose erano meno evolute e dal Vertice di Portorico del 1976 venne una vera e propria diffida quadrangolare (Usa-Inghilterra-Francia e Germania) intimandosi all'Italia di non mutar rotta.
Il cancelliere Schmidt fece una dichiarazione formale a nome dei quattro, creando aI governo italiano non lieve imbarazzo. Ma l'orlo del fallimento finanziario e l'incubo delle Brigate rosse contavano più de i sermoni.

E ancora, sempre Andreotti sulla stessa rivista:
Un chiodo fisso degli Stati Uniti - con sfumature diverse ma con prevalente monotonia - era il timore che in Italia la spuntassero i comunisti. Ed era un continuo di moniti, di critiche, di chiusure, compreso il di vieto di «visto» per i comunisti stessi. [.. .] Del resto, molto prima [del vertice di Portorico. Nda ], l'ambasciatrice (o ambasciatore che sia) Claire Luce aveva definito poco virile De Gasperi, esaltando l'uomo Pella perché aveva fatto tintinnare le sciabole per reagire ad una presunta minaccia titina. Insomma, nell'Italia del 1976, i democristiani erano nell'occhio del ciclone. L'affermazione elettorale segnata a giugno dal Partito comunista era stata strepitosa: 34 per cento dei voti nella tornata delle europee (piccolo errore veniale: le prime europee si tennero nel 1979 nd OG), una conferma del trend positivo iniziato con le amministrative dell'anno precedente. Il Pci si imponeva in Italia come ineludibile forza di governo. Del resto, il paese era dissestato economicamente e le trattative che i partiti avevano intrapreso all'indomani del risultato elettorale non offrivano vie d'uscita alla Balena Bianca, se non quella di avviare la strategia della «solidarietà nazionale», iniziata con la costituzione di un monocolore Dc sostenuto dall'astensione di altri cinque partiti, tra i quali i comunisti, una scelta che gli alleati avrebbero fatto pesare, minacciando un'esclusione umiliante e indigeribile.

In quel ricordato vertice di Portorico, la minaccia era diventata pubblica: Aldo Moro era tornato avvilito e sconfortato, perché la forte ascesa dei comunisti era stata considerata irreversibile e la governabilità dell'Italia, di conseguenza, compromessa. Fu perciò lo stesso Moro a convincersi che il suo vecchio nemico di partito, Andreotti, era l'unico in grado di condurre un nuovo esecutivo sostenuto dal Pci, per non creare «interpretazioni equivoche all'interno e all'estero». Fu così che Andreotti arrivò, nel luglio del '76, alla guida del suo terzo governo, volando prima negli Stati Uniti per cercare di rassicurare il presidente Ford: egli racconta che la prima difficoltà che dovette affrontare in politica estera fu proprio la dichiarazione pubblica di Portorico. In quel delicato contesto, l'ultima cosa che Andreotti avrebbe fatto era quella di incendiare la polemica con Bonn, come rivela nei suoi Diari: non dobbiamo mostrarci isterici e permalosi, avremo tempo per spiegare al Cancelliere la situazione e chiedergli consigli. Oggi egli rappresenta il paese al quale abbiamo dovuto pagare in pegno l'oro della riserva monetaria per garantire gli ultimi prestiti. Non possiamo risentirci perché si occupa di ciò che accade da noi ... debitori.
L’ltalia, insomma, era un paese molto isolato e sotto stretta «sorveglianza», visto che In quel momento stava progettando, nel fatti, li superamento politico, non certo militare, dell'ordine di Yalta creato nel dopoguerra come garanzia di un nuovo equilibrio.

Mentre era in corso questo tentativo di eludere i piani stabiliti dalle grandi potenze nel 1945, il governo italiano non ebbe la forza neanche di chiedere pubblicamente al cancelliere tedesco una condanna per la fuga di Kappler, che infatti non fu mai pronunciata. Schmidt non spese neppure una parola per spiegare agli italiani perché la Germania non intendeva ridare indietro il boia delle Fosse Ardeatine. In Germania le reazioni erano tutte improntare a una malcelata soddisfazione: i giornali popolari elogiavano l'abilità e il coraggio della signora Kappler, gli altri invitavano le autorità e i cittadini italiani a porre una pietra sullo spinoso caso. Non si sarebbe mai parlato, era chiaro, di un'estradizione in Italia. Fu Willy Brandt, e non Andreotti, a chiedere che il governo tedesco prendesse posizione.”
Grazie, signora Limiti.


Oreste Grani
 
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Oreste Grani
view post Posted on 15/8/2012, 17:15





Caro Amalek l’infangatore, scrivevo l’11 agosto alcune parole a te dedicate che cominciavano con: “Caro amico dei nazisti e nemico degli eroi dell’Arma dei Carabinieri, a me sembri sempre di più un complice oggettivo di tutti gli approfittatori che, cooptati per pseudo rapporti di fiducia nei servizi segreti italiani, si sono dedicati invece che ai fini istituzionali del servizio in primis all’uso disinvolto della cassa”.

Il 6 gennaio 1994 il dirigente del Sisde Maurizio Broccoletti estradato in quelle ore da Montecarlo (che fantasia geografica questi agenti segreti!) sosteneva, a parziale discolpa delle sue malefatte, che venivano dati, dalle casse del Sisde, senza obbligo di rendicontazione milioni di lire a Oscar Luigi Scalfaro, quando era ministro degli Interni, per un fondo spese destinato a fonti riservate per informazioni utili alla sicurezza nazionale.

La giustificazione ufficiale per questo fondo speciale era che, avendo il signor ministro dei suoi “segretissimi informatori”, doveva pensare, tra le altre cose che aveva da fare, a foraggiarli. La cifra era di 30 milioni al mese.

Cari lettori tenete conto che a capo del Servizio Segreto Militare dall’aprile del 1951 al settembre del 1952 c’era stato il generale Umberto Broccoli e che il 25 luglio del 1994 veniva arrestato a Losanna in Svizzera, (che fantasia geografica questi agenti segreti!) Michele Finocchi, ex capo di gabinetto del Sisde anche lui coinvolto nello scandalo dei fondi neri di cui sopra e fino a quella data sfuggito – minchia – alla cattura: Broccoli, Broccoletti e Finocchi, scusate il cazzeggio ma ogni tanto ne sento il bisogno in presenza di tanto orrore. Broccoletti dichiarava inoltre che il denaro era stato dato anche a Nicola Mancino (guarda chi spunta), a Giuliano Amato e al capo della Polizia Vincenzo Parisi.

Torneremo sulla vicenda dei fondi dati a questi signori per stabilire, una volta per tutte, se questa vicenda fosse vera, falsa o, secondo un pensiero di Umberto Eco, autentica.

Teniamo conto inoltre che poche ore dopo l’estradizione di Broccoletti parla Luigi Bisignani, ex responsabile delle relazioni esterne del gruppo Ferruzzi, coinvolto nello scandalo delle tangenti pagate da Montedison, che si costituisce (è il suo stile come la vicenda recente della P4 insegna) a Milano il giorno 7 gennaio e ci fa trovare nella calza della Befana se stesso (dopo 3 mesi di latitanza) e l’affermazione che “un alto prelato dello IOR, la banca vaticana, avvallò la pulizia di 92 miliardi della maxi tangente Enimont.
La notizia è vera, falsa o autentica?

Il 4 gennaio 1994 al processo che ormai portava il suo nome, Sergio Cusani si presenta per la prima volta in aula, ma rifiuta di parlare.
Il 2 febbraio invece l’ex amministratore delegato della Montedison Carlo Sama rivela che Raul Gardini pagò 1 miliardo al PDS per gli sgravi fiscali all’Enimont.
La notizia è vera, falsa o autentica?

Carlo Sama affermò: “la tangente venne consegnata con una valigia nell’ottobre del 1989 a Botteghe Oscure a Roma alla direzione del partito”.
La notizia è vera, falsa o autentica?

Questa premessa di cronache giudiziarie e di affidabilità delle fonti serve a calarci negli anni che poi andarono sotto la semplificazione giornalistica di Mani Pulite: mentre Broccoletti diceva che anche i ministri distraevano fondi, i clan somali continuavano a spartirsi le vie di Mogadiscio, i russi cercavano di uccidere tutti i ceceni, gli israeliani continuavano ad occupare la striscia di Gaza e in quelle terre non si riusciva a porre in modo costruttivo la questione di una pace duratura tra Israele e Siria (ma no?!).
Erano gli anni ’92, ’93, ’94.

Nel 1994 l’ambasciatore Sergio Romano si chiedeva:

“Avremo finalmente la pace bosniaca? La Corea del Nord rispetterà i patti nucleari firmati con il governo di Washington? Il fondamentalismo islamico rappresenterà alla fine degli anni Novanta ciò che il terrorismo palestinese rappresentò per l’Europa alla fine degli anni Settanta? Nel corso dell'anno scoppieranno altre "guerre d'Africa" in Angola, in Mozambico o in Nigeria?”
Diceva inoltre l’ambasciatore: “Queste crisi, per quanto gravi, sono soltanto i segni esterni, le manifestazioni patologiche del "grande disordine" che caratterizza la situazione internazionale dalla fine degli anni ottanta. Distratti dai singoli conflitti rischiamo di perdere di vista un processo - la ricomposizione dell'ordine internazionale – che si svolge su tempi più lunghi e sfugge all'occhio elettronico degli operatori televisivi. È su questo processo che dovremmo fermare la nostra attenzione”.

Per quanto riguarda la situazione in Italia, in quel fatidico 1993, scriveva il giornalista parlamentare, Carlo Cantini:

“C'è un'analogia singolare tra la lunga estate del 1943 e questa, che abbiamo appena vissuto, del 1993. Sono passati esattamente cinquant'anni, vengono fatte in TV le rievocazioni storiche della caduta del fascismo, della sconfitta bellica, dell'occupazione nazista.
Le immagini di Giovanni Paolo II al Laterano e a San Giorgio in Velabro si sovrappongono a quelle ingiallite di Pio XII al cimitero del Verano dopo i bombardamenti del '43. E le bombe esplodono ancora con singolare analogia, ma con una basilare differenza. Infatti, nonostante i patimenti, le sofferenze e i lutti, nonostante tutto, le bombe del '43 portavano
il nuovo. Finiva una tirannide e cominciava la speranza della democrazia. L'Italia conquistava, a costo della distruzione e del sangue, la democrazia e la libertà.
Oggi, invece, le bombe difendono il vecchio, vengono definite «di stabilizzazione» e tentano di impedire il progresso civile di un Paese sconvolto dalla corruzione, che registra la disfatta morale e politica della propria classe dirigente, un paese che non ha ancora realizzato la democrazia compiuta.
Se è vero che le bombe odierne difendono lo «status quo», automaticamente, quando esplodono, dovrebbe sentirsi tutelata anche la nomenclatura dell'economia statalistica.
Ma anche le tangenti, la corruzione politica che ha dato luogo allo sperpero di tanti investimenti finanziari e, in ultima analisi, il parassitismo improduttivo e clientelare dovrebbero trovare, nelle bombe, la manifestazione esteriore più simbolica di una qualche tutela.
Sono paradossi?
E gli incendi dolosi, tanto numerosi, che sconvolgono il Bel Giardino d'Europa, sarebbero l'espressione più evidente del ruolo assunto stabilmente da coloro i quali vivono ai margini della società civile nella complicità inconfessabile tra malavita organizzata e politica.

Sono trascorsi cinquant'anni dalla fine del fascismo, il cui crollo avvenne alla luce del sole. Nessuno si curò, allora, se Piazzale Loreto fosse uno «shock», fosse in fondo «destabilizzante». La gente, allora, doveva sapere fino in fondo, anche a costo di aprire ferite insanabili. Allo stesso modo oggi la verità deve venire a galla, completamente.
Il crollo della partitocrazia ci riguarda tutti. Escano, allora, tutti gli scheletri da tutti gli armadi, nessuno, escluso.
Sono trascorsi tanti anni dalla lunga estate del '43, e l'Italia nel frattempo ha dilapidato un immenso patrimonio morale, di ingegno e di creatività, producendo al suo posto il «boom» di un benessere fittizio, drogato dagli sperperi pubblici, basato sul clientelismo. Oggi, si deve prendere atto che è finito un periodo storico, politicamente fondato sulla scelta fatta dalla classe dirigente negli anni '60 per un'economia statalistica che è, via via, degenerata in «corruttela».
Non bisogna dimenticare che l'Italia della partitocrazia ha premiato i furbi e i corrotti, i clienti e i lottizzati, penalizzando, per intere generazioni, i cittadini operosi, silenziosamente impegnati nelle professioni, nelle arti, nei mestieri, persone preparate ma non raccomandate che, in una libera economia di mercato, avrebbero ottenuto ben altri riconoscimenti.
La lunga lista degli italiani non raccomandati ha, spesso, ingrossato la schiera degli emigrati.
La fuga dei cervelli, il «brain drain» ha fatto il resto, impoverendo le risorse umane del nostro popolo.
Il flusso migratorio, dall'inizio di questo secolo, ha raggiunto cifre significative se è vero che, ai 56 milioni di italiani residenti in Italia, ne corrispondono altrettanti in Canada,
Australia, Argentina e USA.
Le cause sono molteplici e complesse, (recessione, disoccupazione ecc.) ma una di queste è certamente rappresentata dalle difficoltà, per un giovane, di trovare un inserimento sociale, un posto di lavoro, - difficoltà d'ogni tipo, non ultima la fatidica «raccomandazione politica».
La parte creativa e qualificata della popolazione italiana, non solo i grandi imprenditori, ha trovato ostacoli d'ogni genere se non è venuta a patti con la partitocrazia. La selezione politica e clientelare, i metodi contorti e mafiosi per ottenere un posto sono stati, infatti , una forma di tangente tipica del sistema partitocratico, una specie di capolarato istituzionalizzato. Ad esso è stato sacrificato il merito e la professionalità.
E, ancora oggi, l'Italia che lavora è sottoposta alle tangenti come l'Italia che produce. La parte sana del Paese si fa carico, ancora una volta, dell'incapacità di tanti parassiti, dell'inefficienza dei pubblici servizi, della mancanza di moderne strutture, ed è supertassata in cambio di nulla.
L'inefficienza è, di per sé, una tangente. L'inefficienza del sistema, inoltre, indossa l'abito dell'arroganza assumendo caratteri persecutori contro il cittadino, il dissidente, contro chi non ci sta.
La selezione naturale, che si verifica in condizioni di libero mercato del lavoro, non si verifica mai nel nostro Paese.
E le gerarchie sociali risultano artificiose, frutto di un meccanismo illegale.
Quando avrà termine questo sistema statalistico, partitocratico, nepotistico e mafioso?
Tangentopoli è servita ad abbattere i costi «politici» della produzione industriale. Si comincia a privatizzare timidamente, ma occorre capire perché tante risorse umane e finanziarie siano finite all'estero.
I giudici di Mani Pulite hanno individuato, in Svizzera, mille depositi bancari italiani ai quali non potranno mai accedere. Se i depositi sono di origine illegale, si sottraggono alla giustizia; se, invece, sono legittimi, evidentemente cercano di sottrarsi alla persecuzione fiscale”.


Caro infangatore utile idiota di vedremo chi, sono passati altri venti anni (quasi) dall’estate del 1993 e non solo gli incendi dolosi fanno sospettare complicità inconfessabili tra malavita organizzata e politica.
“Il crollo della partitocrazia ci riguarda tutti” scriveva nel 1993 Carlo Cantini.
“Escano, allora, tutti gli scheletri da tutti gli armadi, nessuno escluso.”

Quella di queste ore è, ancora una volta, una straordinaria storia italo/americana e la Sicilia e i siciliani hanno, nelle loro mani, le vite di tutti gli italiani. Si avvicinano le elezioni per il Parlamento Regionale Siciliano e ancora una volta non sappiamo chi siano i gattopardi: chi è oggi l’OSS? Chi è il Lucky Luciano? Chi è l’Antonio Canepa? Chi Vito Genovese? Chi Max Corvo? Chi Vincent Scamporrino? Chi Calogero Vizzini? Chi Max Mugnani? Chi Otto Scorzeny? Chi Valerio Pignatelli? Chi è oggi il nuovo Mario Mori? Chi il Giuseppe De Donno? Chi Vito Ciancimino? Chi Giovanni Falcone? Chi Carlo Alberto Dalla Chiesa? Chi Paolo Borsellino?

Nel 1993 il groviglio bituminoso del rapporto Stato mafia è stato possibile perché i 50 anni trascorsi dalla lunga estate del ’43 non ci avevano convinti a richiedere l’apertura di tutti gli armadi. Ne sono trascorsi altri venti, dal 1993, inutilmente.
In questa inutilità non sottovaluterei la chiara, onesta, illuminante presa di posizione di Claudio Martelli che, nella sua veste di protagonista di quegli anni e di quegli avvenimenti, sente il bisogno civile e morale di raccontare la sua parte di verità.

Ed io sento il bisogno di ringraziarlo per questo e di dare spazio alla prosa netta, senza equivoci che lui usa oggi, 15 agosto 2012, ospitato sul Fatto Quotidiano:

“Caro Direttore, leggo sul Fatto del 14 agosto una replica alla mia intervista del 12 ultimo scorso, di Giovanna Maggiani Chelli, presidente dei familiari delle vittime di via dei Georgofili: "L'ex ministro Martelli dopo 20 anni si è pentito?
Oggi dice a ruota libera ciò che si è guardato bene dal dire sia nel 1993 e ai magistrati di Firenze mentre indagavano sui concorrenti esterni a Cosa nostra per le stragi". Quando nel giugno del 1992, varato il decreto antimafia più incisivo della storia repubblicana, fui avvertito dalla dottoressa Liliana Ferraro delle anomale richieste del capitano De Donno del Ros, tromite la stessa Ferraro ne informai Paolo Borsellino, (che ti rispose: "Ci penso io”), il generale Tavormina capo della Dia e il ministro degli Interni Mancino.
Nel novembre 1992, quando lo stesso De Donno chiese il rilascio del passaporto a Vito Ciancimino ne informai il pg di Palermo, Bruno Siclari, che ordinò l'arresto del Ciancimino. Riferii ai responsabili del comportamento anomalo del Ros senza neanche immaginare che, mentre lo Stato inaugurava una lotta globale a Cosa nostra, qualche suo esponente potesse tessere trattative per fermare le stragi. Il che deve ancora essere provato. Della trattativa e del decisivo ruolo del presidente della Repubblica dell'epoca, Oscar Luigi Scalfaro, nell'attenuazione del 41·bis, sono venuto a sapere, come tutti, solo in epoca recente grazie alle indagini delle Procure di Palermo e Caltanisetta, al lavoro della Commissione antimafia presieduta da Giuseppe Pisanu, alle testimonianze di Nicolò Amato, direttore dei penitenziari e dei cappellani delle carceri e, soprattutto, grazie alla assunzione di responsabilità del mio successore al Ministero della Giustizia, Giovanni Conso. Dunque, rendendo testimonianza all'indimenticabile pm fiorentino Giovanni Chelazzi riferii quanto sapevo allora, compresi gli originari dubbi manifestati da Scalfaro e da altri politici circa l'introduzione del 41-bis, e non, evidentemente, quanto all'epoca era ignoto a me come a tutti. Chelazzi elogiò il mio lavoro da ministro e mi ringraziò.

Claudio Martelli”



Martelli, dopo quanto ha voluto dire nelle recenti apparizioni televisive e nell’intervista del 12 agosto al Fatto Quotidiano, lascia oggettivamente meno soli i magistrati palermitani anche perché si è opportunamente collegato, con la sua azione, al meraviglioso movimento di protezione che oltre 100mila cittadini consapevoli stanno mettendo in atto a sostegno della ricerca della verità.
Dedicherò, quanto prima, parte del mio racconto all’incontro con Claudio Martelli, avvenuto grazie alla volontà di Giampaolo Colletti, dipendente all’epoca di Ipazia Preveggenza Tecnologica.

Racconterò, come ho promesso migliaia di parole fa, della sfortunata esperienza elettorale alle recenti amministrative di Siena.
Colgo questo momento e questa limitata opportunità data dal sito su cui scrivo per scusarmi con Martelli, per averlo esposto all’odio feroce che i vetero/neo comunisti senesi provavano per lui, chiedendogli di candidarsi e di aiutare Pierluigi Piccini nel suo estremo tentativo elettorale.
Avevo sottovalutato, (io che leggerezze così non le avevo mai commesse), l’effetto che le troppe massonerie che operano a Siena avrebbero avuto, sommandosi al sordido ambiente verdiniano, sul nostro onesto tentativo di eleggere un sindaco diverso da Ceccuzzi.


Anticipo con la pubblicazione di due testi il racconto che non poteva, prima o poi, non essere fatto. Come i conti che, alla fine, vanno sempre fatti.

“Il groviglio armonioso il groviglio bituminoso

Scritto da STEFANO BISI il 18 aprile 2011 sul Corriere di Siena da lui diretto.

Tra i tanti soloni, di centro, di destra e di sinistra, che negli ultimi tempi pontificano sulle “disgrazie“ del Sistema Siena per catturare qualche voto in più mancava Claudio Martelli, già vicepresidente del consiglio dei ministri, ex ministro della giustizia ed eterno delfino di Bettino Craxi. E’ venuto a Siena per sostenere la candidatura a sindaco del moderato Gabriele Corradi e, siccome, il babbo di Bernardo gli deve essere sembrato troppo riflessivo, è partito in quarta e si è messo a insultare i senesi ai quali, però, chiede i voti per essere eletto in consiglio comunale. Martelli ha paragonato i suoi nuovi concittadini a sudditi che subirebbero “una vera e propria casta che sta soffocando la città”. Ma i senesi non sono mica così bischeri, sanno distinguere il grano dal loglio, come ricorda spesso l’assessore Pierpaolo Fiorenzani. Sanno giudicare quello che è bello e quello che è brutto, chi sa governare e chi no. Insomma, non sono sprovveduti. Sono stati capace di creare e mantenere, nel corso dei secoli, il Sistema Siena, quel groviglio armonioso di enti, istituzioni, associazioni, uomini che ha fatto nascere il Monte dei Paschi; il Santa Maria della Scala e poi il policlinico delle Scotte; l’ateneo e l’università per stranieri; che ha sostenuto e sostiene la Mens Sana verso i traguardi nazionali ed europei e il Siena verso la serie A. Per Martelli questo “groviglio armonioso“ è un “groviglio bituminoso”, poco trasparente, con una stampa “che si riduce a esaltare tutto quello che fa l’amministrazione”. Anche “il riscontro

Ma le nostre collezioni sono a disposizione per chi Siena l’ha vista da lontano o gli è stata descritta da occhi strabici. Quando c’è stato da raccontare malefatte o da criticare questa o quella scelta noi ci siamo stati ma da qui a dire che il Sistema Siena è fatto di disgrazie ce ne corre. In fondo la città e la provincia sono da sempre nelle primissime posizioni delle classifiche della qualità della vita e mica tutti saranno giornalisti sudditi come saremmo noi, secondo Claudio Martelli, che diamo “riscontro alla presentazione del bilancio del Monte dei Paschi”, cosa che hanno fatto, peraltro, con toni benevoli i più autorevoli quotidiani italiani.
Ci viene in mente, ancora una volta, quell’insegnante che disegnò su una parete bianca un punto nero e poi chiese ai suoi studenti: “Che cosa vedete?”. Risposero: “Un punto nero”. “Sbagliato – disse – in questa grande parete bianca voi vedete solo un punto nero”. Quella risposta del saggio maestro serva da insegnamento anche per chi, al centro, a destra e sinistra, si piange addosso o spara contro il Sistema Siena, senza alzare lo sguardo oltre le mura cittadine, senza guardare come sono e come vivono città a noi molto vicine.

Martelli e altri contendenti di queste elezioni comunali dovrebbero saperlo e dispiace che l’ex ministro dalla giustizia arrivi dalle nostre parti e si comporti come quei politici di terza fila che per giungere nelle posizioni di riguardo le sparano grosse che più grosse non si può. Un’occasione persa perché Martelli avrebbe potuto nobilitare questa campagna elettorale dall’alto della sua esperienza, per le sue lunghe battaglie libertarie, per i diritti civili, e invece appare come una bellissima donna che, ormai attempata, si mette i tacchi a spillo per sentirsi giovane mentre dovrebbe valorizzare la saggezza che deriva dall’età. E dispiace che per la sua battaglia livorosa, il portabandiera della giustizia giusta, della laicità e della tolleranza, strumentalizzi un’eroina di quindici secoli fa, la filosofa Ipazia, massacrata dal fanatismo della prima Chiesa cristiana, celebrata in un uno straordinario libro di Silvia Ronchey, docente dell’università di Siena. Ecco, Martelli, che usa il volto di Ipazia per la sua campagna elettorale, appare un fanatico, come quelli che massacrarono la nostra eroina.”


Che Martelli avesse ragione e Bisi torto è dimostrato dalla fine che hanno fatto Ceccuzzi, il Monte dei Paschi di Siena e quasi tutti i senesi.
Aveva ragione Claudio Martelli e non Pierpaolo Fiorenzani o, Walter Veltroni che era venuto a Siena a sostenere il candidato PD. Ma più di tutti ha avuto torto Nichi Vendola che, con il suo comizione coprì, di quanto bastò, le vergogne dell’amministrazione Cenni/Ceccuzzi.
È solo il tempo che saprà raccontare fino in fondo come sono andate le cose a Siena.

La lettera che segue è un primo esempio di quanto Ipazia Preveggenza Tecnologica, Ipazia Promos e Ipazia Web Tv hanno tentato di fare, in alleanza, tra gli altri, con Claudio Martelli, perché “l’uomo non sia un mezzo, ma un fine”. Ricordando sempre che il mezzo deve anticipare il fine.

“Egregio dott. Bisi,
non son pochi coloro che, in questi tempi fortunati per il suo nome, dopo secoli di discredito, si appropriano di Ipazia per scrivere libri, fare film, dividere gli uomini. Noi di Ipazia Promos, Ipazia Preveggenza Tecnologica e Ipazia Web Tv, pur costituiti formalmente soltanto da pochi anni, facciamo riferimento, in riservatezza, da lunghissima data (dicembre 1991) alla saggia maestra, come guida illuminata delle nostre vite personali, di persone che stanno nel mondo cercando di dare un contributo di ragione e di speranza al proprio impegno per il bene della comunità umana, e anche del nostro agire aziendale, in una forma atipica, come ci piace dire, fuori dagli schemi commerciali tradizionali del mondo economico.

Nel nome di Ipazia, ci sentiamo chiamati ad una missione che provi a tradurre in un agire coerente per il bene della società, le parole, sapienti e profetiche, di Mario Luzi, che abbiamo voluto citare in apertura pubblicando un’intera pagina sul giornale che Lei dirige della campagna valoriale che abbiamo inteso offrire alla città di Siena e ai senesi, con l’amore per il nostro Paese tutto. Siena è per noi il luogo della rinascita italiana, ove questa provino a guidarla intelligenze e spiriti capaci di uno sguardo alto, non strabico ma pantocrato, non di destra, di sinistra o di centro, ma di destra, di sinistra e di centro, quindi. Universale, che non si fermi alle piccolezze del qui e dell’ora.

Non a caso il nostro simbolo raffigura la testa di Ipazia in forma di nautilus, immagine privilegiata di complessità. E la complessità è ragione profonda e superiore, che segue percorsi carsici e labirinti articolati, e rifugge da semplicismi e antagonismi, perché è ambiziosa e capace di integrare i diversi, gli opposti e perfino i contraddittori, in un complesso armonico, anche in forma di groviglio armonioso e creativo.
L’armonia è e deve essere compagna della tolleranza e della prudenza, perché è compagna della libertà, e libertà significa potersi esprimere in modo diverso da chi detiene il potere di espressione.

“Tutti a votare, comunque e liberamente”, si legge nel materiale propagandistico elettorale che circola a sostegno della candidatura di Corradi e della coalizione che si è schierata con lui, che abbiamo ritenuto la più idonea a trasformare in un progetto per la città e per l’Italia e in comportamenti politici e amministrativi i valori che abbiamo argomentato nella nostra campagna comunicazionale. Valori che promuoviamo e difendiamo per tutti coloro che hanno conoscenza di quanto, anche recentemente, è stato detto con autorevolezza, in un’assise a Rimini, per esaltare completezza, dignità, senso della trascendenza, rispetto per l’uomo e la natura, tolleranza, fraternità, miglioramento individuale e collettivo, saggezza.
Auspichiamo per Siena e i senesi più libertà e più responsabilità.

Alcuni di noi, per età, hanno già vissuto nel rifiuto e nella sistematica emarginazione condizioni in cui Ipazia prima e Giuseppe Mazzini poi hanno trascorso tutta la loro vita. Claudio Martelli si è candidato a queste elezioni amministrative a Siena per aderire ad un progetto politico per il Paese che lo precede, lo comprende e lo supera. Martelli è stato, anche da Lei, ingiustamente accusato di arroganza nei confronti dei senesi, per aver denunciato forme di sudditanza psicologica e culturale, che impediscono il coraggio di cambiare e di credere fino in fondo nella forza della ragione e della buona volontà, da cui l’Italia non è esente. E neppure Siena. Come dimostrano i dati delle ultime elezioni amministrative regionali, con oltre 16mila astenuti dal voto (bianche, nulle e non recatisi al voto), che sono il segnale di uno scontento profondo, verso la politica in generale e la politica a Siena in particolare. Quanto dichiarato da Martelli, divenuto oggetto di Sua durissima critica sul “Corriere di Siena”, piuttosto riecheggia quanto scriveva Rousseau: “L’uomo è nato libero, dappertutto è in catene”. E le catene non sono solo quelle pesanti dei carceri e dei lager, ma anche quelle più leggere del controllo massmediatico e dell’odio che, subdolamente, stringe i polsi e le menti dei più deboli. E che li può rendere inconsapevolmente schiavi.

Certo, bisogna ben comprendere cosa significhi la libertà. E viverla fino in fondo e saper combattere per difenderla, affinché tutti la possano ottenere.
Dunque, è ora che kantianamente tutti senza più divisioni si agisca nel nome di Ipazia alessandrina, da Lei con tanto rispetto citata, perché l’uomo non sia un mezzo, ma un fine. Ricordando sempre che il mezzo deve anticipare il fine.
È tempo di superare le divisioni, all’interno delle singole comunità e della comunità umana nella sua interezza, nel praticare la lezione della nostra eroina Ipazia, serva e martire di verità.

Alcuni di noi sono repubblicani storici. Qualcuno, che per età ha conosciuto, stimato e seguito Randolfo Pacciardi – un “protagonista del Novecento”, come recita il convegno a lui dedicato che si tiene oggi alla Camera dei Deputati, per iniziativa, tra gli altri, del dott. A. d. M. − nell’esperienza dell’Unione Democratica per la Nuova Repubblica, dice che la cosa migliore, in umiltà, è quella di indire, tra noi, un incontro civile per il bene di Siena e del Paese. La disturberò telefonicamente quanto prima, per concordare l’eventuale data. Avremmo piacere, infine, che l’incontro avvenisse presso la nostra sede romana. Ovviamente nostro ospite.
Con cordialità

P.S. Siamo le stesse persone che hanno pubblicato sul suo giornale il pensiero di Mario Luzi in tributo a Ipazia. Siamo gli stessi che domani pubblicano a tutta pagina l’omaggio alla Sig.ra Rita Levi Montalcini, donna scienziata che ha dedicato tutta la vita a Ipazia d’Alessandria. Siamo gli stessi che hanno editato in free press “Sorelle d’Italia” e “Dolci acque”. Tutti questi non ci sembrano “gesti offensivi” nei confronti dei senesi e della cultura profonda della città. Profonda e recondita come la sua mitica Diana.”



Buon ferragosto a tutti, tranne a te lurido Amalek.
Oreste Grani
 
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Oreste Grani
view post Posted on 19/8/2012, 21:09





Ora, ripugnante Amalek, cominciamo a ballare.
Quando il 18 giugno 2012 scrivevo “In questi anni ed in particolare negli ultimi venti sono stato tra quelli che hanno sostenuto, non avendo una generica finalità di criticare i Servizi Segreti Italiani, l’urgenza di nuove prassi e metodologie per migliorarne l’efficacia con la piena soddisfazione di tutti” anticipavo quanto, in altro modo e con finalità propositive, ora scrivo di seguito.

Quando, il 23 marzo 2012, nella Sala delle Colonne alla Camera dei Deputati, noi di Ipazia Preveggenza Tecnologica accogliemmo 100 ospiti tra i più preparati nel campo dell’intelligence, ho sperato che fosse arrivato il tempo per mettere a frutto gli sforzi compiuti per dare un contributo alla nascita di uno Stato Intelligente capace di utilizzare i finanziamenti europei per l’innovazione e per la sicurezza.

Come si può dedurre da quanto scritto fino adesso avevo preparato l’esordio pubblico, in un luogo istituzionale, con la massima cura, e aiutato, in modo determinante, da una squadra, sia pur esigua, di collaboratori che mi sento di definire, nonostante tutto quello che è accaduto fra di noi, un manipolo di eroi.

Anni prima, per l’esattezza il 23 maggio del 2006, in accordo con E. B., avevo rafforzato il pensiero già espresso nel documento “Ubiquità, ovvero la dimensione necessaria di un’Intelligence culturale” redatto nel dicembre del 2005 con nuove considerazioni che chiamammo Ubiquità2 sulla necessità di una riforma, in senso culturale, dei così detti servizi scrivendo: “Viviamo in un pianeta globalizzato. Una frase ricorrente, divenuta ormai banale, svuotata di significato proprio dal suo impellente ricorrere. Eppure, una frase densa di implicazioni sociali e politiche imprescindibili, anche per una riforma del sistema di informazione e sicurezza, cioè, per la riorganizzazione dell'Intelligence.

La globalità come fenomeno nuovo non si esaurisce in una amplificazione delle relazioni in termini di numero e intensità, ma significa una delocalizzazione delle relazioni tale da creare uno spazio sovraterritoriale governato da regole diverse e ancora in formazione, che sollecitano un approccio trasformato e solidaristico tra discipline e competenze a problemi e situazioni, particolarmente in ambito di difesa e sicurezza culturale prima ancora che nazionale. Il principio di solidarietà pluralistica diviene, quindi, il paradigma comportamentale e metodologico che consente di affrontare sfide impreviste e imprevedibili per forma ed effetto. Il bisogno di territorializzazione di diverse istanze entra in conflitto con l'esperienza di deterritorializzazione delle diversità cui oggi assistiamo. I rischi maggiori per la sicurezza provengono da questa dialettica, non gestibile con metodi e procedure convenzionali, non adeguati all'alto grado di aleatorietà delle dinamiche innescate.

Una dialettica. multipolare e pluridimensionale, nella quale è necessario distinguere le minacce di tipo convenzionale dalle minacce emergenti. La minaccia convenzionale è generalmente associata ad un governo o a gruppi di potere con una identità definita, ha un sistema lineare di azione e sviluppo ed è, dunque, gestibile da una Intelligence tradizionale, bene addestrata con capacità e tecnologie convenzionali e un metodo di analisi metodico e procedurale. Non è possibile affrontare, valutare e risolvere, invece, le minacce emergenti con le capacità finora addestrate e con le tecniche in uso. Si tratta, infatti, di un tipo di minaccia non governativa e non specifica, non convenzionale, fortemente dinamica e accidentale, non lineare, non contemplata nella dottrina e quasi impossibile da prevenire.

Per addestrare nuove capacità di Intelligence culturale abili a identificare i nuovi poteri e le instabilità emergenti ad ogni livello, per prevedere cambiamenti radicali e catastrofici, occorre modificare l'intera percezione e concezione del mondo, elaborando una potenziale comunità di Intelligence delocalizzata e detemporalizzata, cioè, ubiqua, capace di attivare in situazione organi periferici come centrali, in una nuova visione sistemica circolare non gerarchica e non verticale.

In che modo? Principalmente attraverso alcune strategie di investimento finanziario rivolte a sviluppare e potenziare risorse globalizzate e territorializzate. L'intelligence deve investire in modo “intelligente” su partners istituzionali e privati, soprattutto in termini di prevenzione culturale e di costruzione di reti collaborazione su temi sociali e di assistenza civile tra aziende economiche e soggetti privati con organismi pubblici, che svolgano una funzione di “sentinella” nel territorio, senza dovere aspettare che le situazioni degenerino in condizioni di allarme per la sicurezza al punto da rendere necessario l'intervento militare. In particolare, occorre investire risorse umane ed economiche nella ricerca e nella formazione, nelle Università e nei centri culturali, nelle associazioni di volontariato e umanitarie. In passato, soltanto le minacce impellenti ed evidenti sono state ritenute idonee a giustificare grandi investimenti. Occorre, invece, modificare il nostro approccio adeguandolo al sistema globale con un intervento e investimento sistematico sul piano culturale e psico-sociale, superando le tendenze tecnicistiche e burocratizzanti che sono il residuo di un razionalismo scientista ormai desueto.

Sotto il profilo tecnico-tecnologico, si rende indispensabile un'architettura informatica e amministrativa che integri telecomunicazioni, computer e analisi, studi e sondaggi, per consentire l'integrazione, il coordinamento e l'interpretazione delle informazioni dalle fonti aperte e dei segnali e dei sintomi dell'Intelligence culturale in banche dati transdisciplinari ad alto grado di interconnessione diretta e con un sistema di gestione degli archivi che vada ben oltre le applicazioni correnti. Sistemi operativi di sicurezza multilivello sono cruciali per una Intelligence strategica efficiente ed efficace. È necessario, quindi, che specialisti del mondo degli istituti di cultura, delle imprese e della libera professione collaborino con le agenzie di informazioni per governare i “sistemi aperti” che sono, ormai, il terreno di conoscenza e di azione dell'Intelligence del XXI secolo. Un problema centrale, qual è quello dell'immissione dei dati, per esempio, è risolvibile soltanto conquesta metodologia solidaristica e comunitaria, così come il coordinamento delle risorse umane adeguatamente formate a vivere e decidere in condizioni di alta indeterminazione e instabilità.

L'Intelligence culturale comprende anche l'Intelligence economica. Una condizione di fragilità nel commercio internazionale e sui mercati finanziari costituisce un pericolo reale per il mantenimento di equilibri di pace e per la sicurezza. Ciò significa, innanzitutto, investire con una attenta programmazione nella ricerca scientifica e tecnologica con ricadute nel sistema applicativo economico ma con una visione prospettica di ampio respiro, spaziale e temporale.

Tra le misure preventive di Intelligence non può non rientrare il controllo della corruzione e dei sistemi di interessi diffusi, ai limiti della legalità o spesso oltre confine, che sono come bombe innescate pronte ad esplodere imprevedibilmente. Gli ultimi fatti, nel mondo del calcio italiano, mostrano quanto sia necessario attivare quanto prima questo sistema di Intelligence culturale ubiqua, anche attraverso l'utilizzo di strumenti tecnici, come le intercettazioni, ma senza ridurre il sistema ad una burocrazia tecnologica, che non è in grado di interpretare elementi minori o solo apparentemente marginali nell'ambito di un sistema complesso globale.

E qui tocchiamo un'altra questione strategica nella riorganizzazione dell'Intelligence: la formazione. Manca, ad oggi, un metodo di indagine e ricostruzione delle precondizioni di cambiamento, in tutte le dimensioni, da cui possa scaturire una crisi, una rivoluzione, un'aggressione, una rottura degli equilibri pericolosa per l'intero sistema Paese. Occorre, invece, mettere a punto una strategia metodologica transculturale e transdisciplinare, che addestri, sviluppi,. integri e coordini competenze diverse in ogni dimensione, capacità e abilità che siano rese collaborative sia verticalmente che orizzontalmente. C'è bisogno, quindi, di un radicale e profondo cambiamento di paradigma culturale, che consideri l'Intelligence come una comunità di esperienza e informazioni non classificate, provenienti dalla vita pubblica e privata, senza gerarchie di valore e senza frontiere nazionalistiche o ideologiche. Il nuovo approccio dell'Intelligence culturale integra le diverse discipline e le diverse prospettive etiche e religiose in una ecologia della mente e dell'intelligenza, per adattarci alla situazione globalizzata e trovarci preparati alle sfide future, in un autentico servizio alla pace e al bene comune, piuttosto che riprodurre una storia di affari di esclusiva pertinenza di un gruppo ristretto di responsabili, cui delegare la decisione e la selezione del bene di tutti senza verifiche e controlli. L'Intelligence deve, invece, diventare il cuore e la mente della vita democratica e del sistema del sapere e della politica. Ciò è possibile soltanto restituendo ai cittadini pari dignità di intelligenza civile e di compartecipazione ai processi e alle strutture di pace sociale. D'altra parte, trasparenza e pubblicità sono un principio cardine dello Stato democratico e la segretezza rappresenta una condizione eccezionale e non può essere una regola metodologica, neanche per ragioni di sicurezza, per le quali è, tra l'atro, una soluzione inadeguata.

Il filosofo Norberto Bobbio notava come proprio nella trasparenza delle informazioni e nella pubblicità dell'amministrazione pubblica risiedesse la distinzione tra il governo democratico e quello assoluto-dittatoriale.

In questo contesto di trasformazione paradigmatica, un ruolo fondamentale è svolto dalla valorizzazione della funzione equilibratrice del Capo dello Stato come il referente primario e ultimo di garanzia del sistema democratico di informazione e sicurezza quale tutore dei principi e dei valori della costituzione e delle regole di convivenza intoccabili e irreprensibili. Per poter svolgere davvero questa funzione di garanzia, il Presidente della Repubblica deve poter contare su un sistema di rilevazione delle informazioni corretto e adeguato, che non può che essere costruito secondo i criteri di Intelligence culturale e ubiqua su indicati.

Scrive Norman Cousin: “Il governo non è fatto per vedere le grandi verità: solo le persone possono vedere le grandi verità. I governi sono specializzati in verità piccole e medie. Devono ricevere istruzioni dal loro popolo riguardo alle grandi verità. E la verità riguardo alla quale devono ricevere istruzioni, oggi, è che occorre creare nuovi strumenti per affrontare i maggiori problemi sulla Terra”. E poi: “La migliore difesa di una nazione è una cittadinanza istruita”.

Fino a qui il documento di Ipazia Preveggenza Tecnologica del maggio 2006.

Scriveva, successivamente al nostro sforzo, il prof. Marco Giaconi, Direttore di ricerca del Centro Militare di Studi Strategici di Roma per commentare la legge di riforma dei servizi: “La Riforma dei Servizi di Informazione e Sicurezza già votata al Senato, con il suffragio unanime delle Forze Politiche, non appare, a dire il vero, una generale Riforma dei Servizi, quanto piuttosto un ridisegno del rapporto, sempre critico in Italia, tra Servizi e classe politica. E quindi tra classe politica e FF.AA.
Sembra poi che la classe politica della cosiddetta "seconda Repubblica", diversamente da quella che l'ha preceduta, che si intersecava con l'lndustria di Stato e le grandi aziende private italiane, sia più interessata a gestire senza intromissioni i suoi rapporti con le piccole e grandi lobbies che la finanziano e spesso ne gestiscono i voti; mentre la "Prima Repubblica" poteva utilizzare i Servizi per una politica globale di sostegno agli interessi economici e industriali degli oligopoli pubblici e privati.
Oggi, la grande impresa italiana è ridotta a poca cosa, la rete delle PMI ha casomai necessità di altri tipi di protezione strategica, la classe politica italiana inoltre non ha più la stessa collocazione nell'Alleanza Atlantica e nel Mediterraneo che caratterizzava la guerra fredda.
Ma potrebbe avere, sia sul piano geopolitica che economico, una proiezione ben più ampia di quella che si era configurata dagli anni '50 fino agli anni '80-‘90.
A questo quadro generale si aggiunge, magna pars, il rapporto tra i Servizi e la corporazione dei magistrati il cui ruolo, come già alla fine della cosiddetta "Prima Repubblica", copre funzioni che necessiterebbero di una linea politica bipartisan che sia accettata, oggi, nelle materie del terrorismo internazionale, della gestione dei conflitti globali non-ortodossi, nella delicata questione della repressione alla nuova criminalità organizzata.
Tutte questioni critiche che stanno al confine tra l'attività dei Servizi e la attività della magistratura giudicante e requirente.
E questioni, aggiungiamo noi, che non sono state regolate dal patto non scritto che ha definito i rapporti tra classe politica italiana successiva alla crisi del 1992 e magistratura.
Una pericolosa dimenticanza che rischia di mettere in crisi perfino lo stesso sistema politico italiano post-"Tangentopoli" in rapporto alla politica internazionale e di Difesa e Sicurezza, esclusa dal patto temporaneo che ha dato origine all'attuale assetto del sistema politico nazionale, a destra come a sinistra.
La "Seconda Repubblica" si è costituita senza pensare niente di nuovo nel campo della Difesa e della Sicurezza, tradizionalmente scaricate sulla rete di alleanze internazionali dell'Italia e messa da parte nel dibattito pubblico, per ovvi motivi: una vera analisi della politica di Sicurezza avrebbe evidenziato la spaccatura tra le forze politiche, e probabilmente anche alcuni partiti di governo di sicura fede atlantica avrebbero trovato qualche difficoltà a far digerire al loro elettorato determinate scelte nel campo della Difesa.
Non dimentichiamo che la Democrazia Cristiana e il Vaticano erano molto freddi riguardo alla adesione dell'Italia alla NATO, come ha ricordato recentemente il Presidente Emerito Francesco Cossiga, del Partito Comunista Italiano era ovvia l'estraneità al Patto Atlantico, Benedetto Croce era contrario, e perfino un diplomatico liberalconservatore come Manlio Brosio, era tentato dal neutralismo, per poi divenire convinto atlantista dopo una lunga conversazione con Edgardo Sogno.
La politica estera è dunque la "cenerentola" della "Prima Repubblica", e le FF.AA. non sfuggono alle tensioni clientelari della classe politica attive in tutti gli altri settori della vita statale.
In questo contesto i Servizi divengono facilmente l'obiettivo di azioni di intossicazione, diffamazione, di raffinata guerra psicologica da parte dell' Est sovietico, e la lunga storia dei "servizi deviati" è servita a dissociare i Servizi dai loro responsabili politici e a inglobare gran parte della classe politica filoccidentale nelle azioni egemoniche dell'opposizione, scaricando, almeno di fronte all'opinione pubblica, tutte le colpe su "una parte" dei Servizi.
Anche il caso "Gladio-Stay Behind", con la destrutturazione autonoma della rete NATO-SISMI da parte del governo italiano, e si tratta di una struttura che era definita dagli accordi dell'Alleanza Atlantica, si inserisce in questa opera di intossicazione e finlandizzazione di fatto della "Prima Repubblica".
Ma probabilmente la questione, anche qui, riguarda la politica interna: "Gladio Stay Behind" si stava ristrutturando come una rete di controllo del territorio anche nel Meridione, con l' apertura , per esempio, del nucleo Gladio-Stay Behind di Trapani, e qui lascio la conclusione all'intuizione del lettore.
Data questa introversione della politica estera in quella interna, che permane anche nella "Seconda Repubblica", il sistema politico nazionale evidentemente non reggerà a nessuna tensione internazionale maggiore delle attuali local wars sia mediterranee che fuori dal quadrante strategico Southern Flank della NATO.
Qui si capisce la ossessione che mostra l'attuale Legge di Riforma dei Servizi sul rapporto tra classe politica e azione del Servizio: un potere sempre più debole non può certo sopportare la possibilità che un Servizio, come accade ovunque in Occidente (e ancor di più nell'area dell' ex-Patto di Varsavia) possa operare con margini di autonomia vasti sia all' interno che all'estero.
Certo, la classe politica italiana non teme una operazione del Primo Direttorato Centrale del KGB, da Andropov a Gorbaciov fino a Vladimir Putin, ovvero quel golpe strisciante del Servizio sovietico contro il PCUS che ebbe inizio con la Perestrojka.
Ma una classe politica strutturalmente debole non può non essere ossessionata da un controllo totale, spesso snaturante, sui Servizi.
Ma la politica estera italiana non si muove più in un contesto di guerra fredda dove le carenze della classe dirigente prima o poi sono supplite da alleati più forti e determinati.
Se, fino al 1989, la "semplice eleganza" della guerra fredda permetteva ben note e spesso utili vacanze separate dei politici italiani, oggi il contesto della Global War on Terror non consente più una autonomia strategica non contrattata , e non finalizzata, dell'Italia nello scacchiere occidentale.
Per non parlare del "Nuovo Medio Oriente" nel quale la questione del jihad della spada e della parola deforma e rende inattuale la tradizionale politica italiana di appeasement con i Paesi arabi, moderati e non.
I nuovi competitori globali dell'Italia hanno diversi interessi, una differente strategia globale, un minor interesse a coprire le carenze, i ritardi e gli errori della classe politica italiana. Di queste tematiche non vi è traccia nella bozza di legge passata al Senato, palesemente ossessionata dal possibile ricatto di "spezzoni" dei Servizi su parti della classe politica.
Nuovi Servizi, bene, ma per quale strategia globale? Perché è quella che costituisce lo scheletro dottrinale e pratico del Servizio, non le tiritere da giureconsulti sui "segreti di Stato". Un Servizio non è un Archivio.
Un Servizio, nella mia opinione, non deve essere mai finalizzato al contrasto di una sola grande minaccia ali' interesse nazionale e alle alleanze dell'Italia.
Il SISMI e il SISDE della legge 801 del 1977 erano il prodotto della minaccia terroristica interna (ed estera) e questa linea si desume dall'impianto politico della legge 801.
Ma sarebbe un errore finalizzare oggi un nuovo Servizio al contrasto del jihad della parola e della spada, o indirizzarlo alla intelligence economica e finanziaria o ancora legarlo ad alleanze politiche internazionali che possono variare da un momento all'altro. Il Servizio si occupa di tutte queste cose insieme, e soprattutto si interessa del nesso strategico che sussiste tra queste varie forme dell' interesse nazionale. Che, peraltro, non cambia con la caduta dei governi”.

Per ora questo. Come capite, Giaconi mi sembrò subito uno studioso competente e in modo particolare mi piacquero alcuni suoi pensieri relativi al modo in cui l’intelligence opera: “E' inoltre da notare che l'intelligence funziona con il criterio bergsoniano del lusso della percezione.
Ovvero, le attività delle Agenzie devono essere sovrabbondanti, magari errate se in buona fede e a costi contenuti, perché si tratta di cercare ciò che non si vede ad occhio nudo, e i numerosi tentativi fanno parte del gioco.
La logica "aziendale" che vede ogni investimento come produttore di profitto, nell'intelligence, non ha spazio.
Come sarebbe andata a finire la seconda guerra mondiale se il SOE britannico avesse cessato gli aviolanci perché spesso lontani dall'obiettivo? Il Servizio non è una fabbrica né un supermercato. E l'economia del Servizio non si misura con i criteri con i quali si valutano i bilanci della Provincia de L'Aquila. O il budget di una azienda di aspirapolvere.”

Marco Giaconi mi finì di conquistare con i suoi dubbi su che cosa si volesse intendere per adeguata formazione nella legge di riforma dei servizi: “Cosa vuoI dire "adeguata formazione" come si sostiene al punto c) del comma 8 dell'art. 4, per gli "ispettori" del DIS? Una "scuola delle spie"? Assisteremo ai "formatori" per gli ispettori del DIS? E chi li forma, quis custodiet custodes? E qual è il criterio? Non si capisce bene se, come è probabile, i "formatori" (sembra di parlare di un team di venditori di aspirapolvere) insegneranno a pararsi il fondoschiena con le leggine e i regolamenti o a svolgere il lavoro di operatori di intelligence, che è un mestiere pericoloso”.

Solo io so quante volte, prima che il professor Giaconi scrivesse queste sante parole, ho scelto di seguire il “sentiero non battuto” dell’intelligence culturale e non le autostrade “Folletto”. Ma questo è il proseguo della storia che mi preparo a raccontare.

Oreste Grani
 
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Oreste Grani
view post Posted on 21/8/2012, 10:51





Messaggio per alcuni collaboratori di Ipazia Preveggenza Tecnologica e per i loro cattivi consiglieri che, con il comportamento tenuto, si sono fatti oggettivamente complici di Amalek, del Trio Lescano e dei tramatori nell’ombra nemici del giuramento alla Bandiera e alla Costituzione Repubblicana: l’importante perché un ricatto riesca è la certezza che la vittima non possa assolutamente fare a meno di qualcosa di cui si dispone e non possa neppure procurarselo altrove.
Capito?
Rileggete!!!
Capito?

Già nel 1979 mettevo a punto questa premessa ad un gioco addestrativo sull’ipotesi di sequestri di navi ed in particolare di maxi petroliere. Era il 1979 e di pirateria navale eravamo in pochi al mondo ad interessarcene. Prima dell’Achille Lauro che è un episodio del 7 novembre 1985. Facevo questi ragionamenti e questi sforzi intellettuali con l’ing. Piero Lo Sardo (e con altri) di cui vi ho già parlato a proposito dell’omicidio Pecorelli.
Piero era un intellettuale rinascimentale e, pur avendo uno stile di vita atipico, era un gentiluomo e, a suo modo, un patriota: fra i suoi parenti stretti contava ammiragli e generali dei Carabinieri.

Mi interessavo di ricatti e di ricattatori già 33 anni fa. 33 come gli anni di Cristo e come i gradi di elevazione spirituale in massoneria. Per fermarmi con un ricatto bisognava togliermi la vita.
Al di la dei riferimenti numerologici mi chiedo da mesi chi vi abbia potuto far credere di potermi ricattare e, così facendo, farmi agire secondo i vostri intendimenti.
A prescindere, direbbe Totò, che chiunque avrebbe capito, frequentandomi e osservando il mio stile di vita, che non avevo un centesimo nascosto, le vostre legittime aspettative professionali erano legate al perdurare del disegno e, aver contribuito ad estromettermi dalla sede di Beatrice Cenci consegnandomi ai nemici di Ipazia, è stato un pensiero ingenuo e autolesionistico. Come ho detto, riprenderò il cammino. Anche per tutti voi.

Pubblico di seguito uno dei materiali didattici previsti e già selezionati per essere utilizzati nei corsi per la Scuola di Intelligence “Guglielmo da Baskerville”. È un “pensiero” scritto da Paolo Fabbri nel 1990 e da me scoperto e selezionato con altre 587 riflessioni su temi trasdisciplinari e propedeutici a un percorso formativo per operatori di Intelligence Culturale.


“Il segreto (1990)

Il punto di vista più adatto per affrontare il tema del segreto è quello dell'agente doppio, cioè della spia. Perché la spia gioca fuori del sistema della verità e all'interno del sistema delle apparenze, e soprattutto perché l'agente doppio è un doppio agente segreto, nella posizione paradossale in cui entrambe le parti che serve contemporaneamente possono sapere benissimo che fa il doppio gioco e trovare il loro conto. Ora, il problema è come si possa, in condizioni come queste, stabilire un simulacro di verità attendibile. È questione di strategia, ed è questo l'aspetto strategico del segreto che sta sotto l'emblema (l'impresa, come avrebbero detto nel Rinascimento) dell'agente doppio.

Partirei quindi da un'immagine paradossale: da quella vertigine, inevitabile, che è l'escalation del segreto di strategia. Immaginiamo ad esempio che io sia interessato al fatto che tu abbia un segreto, e che scopra un segreto sul tuo conto, cioè che scopra qualche cosa che tu vuoi che io non sappia. Anche tu devi essere in qualche modo interessato al mio interesse per questa cosa, altrimenti non ci sono segreti, ma solo cose che non si sanno e, grazie al cielo, il mondo è pieno di cose che ignoriamo. Supponiamo che io scopra questa cosa. A questo punto è mio interesse strategico fingere di non essermene accorto e mantenere il segreto sul fatto che ho scoperto il tuo segreto.

Questo significa che tu ti comporterai come se questa cosa fosse segreta, mentre io ti guarderò sapendo, e quindi scoprendo, tutto quello che fai. Immaginiamo che tu ti accorga che io mi sono accorto; io, che ti guardavo di soppiatto, sono scoperto. Ma non sei affatto interessato a svelarmi questo segreto: sei interessato piuttosto a mantenere il segreto sul fatto che io ho un segreto sul tuo segreto. In questo modo, infatti, tu ti comporterai come prima ma, sapendo che ti controllo, mi darai quegli indizi che faranno sì che questo controllo non controlli nulla. A questo punto, io posso benissimo accorgermi che tu ti sei accorto che io mi sono accorto della cosa. E così via. Questo è un tipico fenomeno di escalation nell'ostilità - lo stesso della bomba atomica - e presuppone che il segreto sia l'oggetto di una posta, di un valore, attorno a cui ruotano due soggetti. Ma l'escalation di segreti reciproci fa sì che il segreto iniziale sparisca rapidamente come oggetto, che la posta, in pratica, si annulli. La cosa che inizialmente volevo sapere sul tuo conto diventa in realtà un pretesto per un gioco straordinariamente complesso di segreti. Ecco perché le poste delle guerre sono ridicolmente irrisorie viste a posteriori, in una prospettiva storica; ecco perché non ci ricordiamo mai perché litighiamo: le ragioni dei nostri litigi stanno in questa specie di vertigine, che mi piace dotare di un valore intellettuale, speculativo.


Detto questo, l'immagine del segreto cambia: non è più un'entità stabile, a partire dalla quale si possa definire la comunicazione, come hanno voluto alcuni autori che, comunque, hanno rovesciato in maniera corretta la vecchia proposizione, secondo la quale: «C'è un imperativo, assolutamente normativa, di comunicazione. Esistono delle zone oscure, delle linee d'ombra che vanno ridotte, perché in fondo la felicità e l'assenza di violenza vanno di pari passo con la comunicazione e la esplicitazione delle zone d'ombra». Il rovesciamento di quest'ipotesi è ben sintetizzato dai versi di Frost: «We dance around in a circle and suppose I the secret sits in the middle and knows» («Noi danziamo in un circolo, supponendo I che il segreto sieda al centro, sapendo»). È l'idea di una stabilità centrale del segreto, attorno a cui ruota la comunicazione. Il dato originario non sarebbe quindi la comunicazione, che determina delle zone d'ombra irriducibili, ma le zone d'ombra stesse. La comunicazione si definisce «in calco», dal vuoto di questo segreto che la abita.

È un'ipotesi molto interessante, ma non la condivido, perché presuppone la staticità del segreto. Si tratta di un'ipotesi statica e quindi pericolosa perché, pur rinunciando alla primitiva impostazione informazionale, continua comunque a praticare una riduzione radicale del segreto. Vediamo un esempio con la psicoanalisi. Winnicot per primo - e dopo di lui, soprattutto, la psicoanalisi più recente - insiste nel non realizzare l'imperativo freudiano classico del «bisogna dire tutto». Nella sua teoria, Freud dice che le pulsioni sono legate a qualcosa di mitico e di profondamente segreto ma, nell'interazione, la regola psicoanalitica è quella di dire tutto, di prosciugare il segreto alla radice.

Ora, gli psicoanalisti si sono accorti dell'aspetto profondamente anomico di quest'obbligo di trasparenza - di questa idea di dover «versare tutto» all'altro - che comporta dei sintomi supplementari. È quella che, negli anni Settanta, Baudrillard chiamava «l'oscenità della comunicazione», che significa mettere tutto «in scena», giocando scherzosamente su una falsa etimologia. Oggi, al contrario, secondo la psicoanalisi è necessario mantenere il segreto non come una zona d'ombra irriducibile ma come un gioco del linguaggio.
Su questo tipo di ipotesi penso si possa inserire l'idea che ci sta a cuore, quella di un segreto tattico, strategico, la cui caratteristica più appassionante è la continua mobilità dell'informazione segreta, che si sposta costantemente in funzione del linguaggio. Simmel, nel suo articolo sulle società segrete, diceva: «Si potrebbe sostenere il paradosso che l'esistenza umana collettiva esiga una certa dose di segreto che semplicemente cambia i suoi oggetti: abbandonando l'uno, si impossessa dell'altro, e in questo andirivieni mantiene la stessa quantità». Insomma, dobbiamo immaginare il segreto come una quantità finita e irriducibile, come una coperta troppo corta: se scopriamo qualcosa immediatamente copriamo qualcos'altro, e viceversa.


Rappresentarsi il segreto in movimento significa, a mio avviso, rompere con l'immagine tenebrosa dello scheletro nell'armadio e renderlo più un «segreto di Pulcinella», cioè segreto derisorio, reso vano dal suo spostamento. Da questo punto di vista ogni segreto è un segreto di Pulcinella. La cosa curiosa è che ciò che lo rende derisorio è proprio la sua scoperta, che non significa scomparsa, ma semplicemente spostamento.
La profondità dell'analisi di Simmel affonda le sue radici nella tradizione delle società segrete dei secoli scorsi: non è una banalità dire che la Rivoluzione Francese è il prodotto dei Lumi, ma anche delle società segrete alla cui straordinaria proliferazione sono forse legati i movimenti politici dell'ottocento. La tipologia delle società segrete, dalle più antiche a quelle contemporanee, può avere architetture di grande complessità, ma tutte hanno un tratto in comune che ne garantisce il funzionamento. Non si tratta tanto del segreto in sé (la massoneria è una società i cui nomi sono noti a tutti, i cui fini sono riconosciuti pubblicamente), quanto l'atto del giuramento, l'impegno a mantenere il segreto. Il motore di queste società che funzionano «a segreto» - come si direbbe di un congegno che funziona «ad acqua » o «a benzina» - è proprio il giuramento di fedeltà all'altro, che è nello stesso tempo un giuramento di conservare il segreto. Il giuramento altera radicalmente i rapporti sociali: crea la più intensa relazione di fedeltà e allo stesso tempo la più radicale e minacciosa relazione con l'altro che si possa immaginare. Nel momento in cui si giura di condividere un segreto si diventa il solo in grado di tradirlo. Automaticamente, il traditore - che, come sappiamo, è l'uomo grazie al quale esistono tutte le storie: non ci sarebbe narrativa se non ci fossero traditori - è la persona che ha giurato a qualcuno di essere fedele a un segreto condiviso.

Quindi la persona che vi è più vicina è contemporaneamente il vostro peggior nemico.

Credo che questo fenomeno non solo spieghi tutti i gruppi «a segreto», cioè i gruppi che condividono un sapere esoterico, ma costituisca la loro paradossale relazione di fedeltà e di sterminio. Basti pensare alla dimensione scissionista dei gruppi di estrema sinistra.
Ritengo che sviluppando la riflessione sulla visione strategica del segreto - del segreto in movimento, del segreto come gioco di linguaggio - capiremmo sul suo funzionamento cose che, considerate sotto altri punti di vista, sembrano contraddittorie. E evidente che molto del nostro modo di parlare non trasmette informazioni compiute ma frammenti di informazioni che un altro dovrà ricostruire, e che si costituiscono quindi come strumenti per escludere dei terzi incomodi.
Penso all'allusione, la figura retorica con cui creiamo una complicità - cioè la condivisione di un segreto qualsiasi - attivando un numero limitato di tratti linguistici. E ciò che Derrida chiama la shibboleth (dall'ebraico: «ciò che ti fa riconoscere i tuoi»), quel pezzo di moneta che ti farà immediatamente riconoscere il possessore dell'altra metà il giorno che lo incontrerai. Ecco, il segreto è qui, in questa moneta spezzata e distribuita fra due soggetti: non c'è niente di segreto, ma solo un farsi segno allusivamente, un cenno d'intesa.

Ciò che interessa non è quindi tanto l'antologia del segreto, la sua strategia di verità, quanto la sua forza retorica, la sua capacità persuasiva. Un altro esempio potrebbero essere i sistemi di decrittazione, che mi è capitato di studiare insieme al matematico Rosensthiel. Tutta la cultura occidentale è attraversata da una questione ossessiva: «Come sia possibile trovare un modo di codificare l'informazione che garantisca il segreto assoluto», un po' come si dice «l'arma assoluta».
Per me questo mito è analogo a quello di un falso esatto quanto la verità. La falsificazione gioca in una strategia continua tra il falsario che copia perfettamente e l'altro che immediatamente ricostruisce una cosa ancora più infalsificabile. E un gioco che non va verso la verità ultima, ma verso l'impossibilità esponenziale di una verità definitiva. Nella decrittazione, abbiamo esattamente lo stesso fenomeno con i «sistemi a chiave rivelata», organizzazioni numeriche estremamente facili da codificare ma difficili da decrittare anche per un computer molto potente. Il segreto sta soltanto nel cono d'ombra provocato dal tempo di calcolo della macchina.

Troppo spesso il segreto viene pensato nello spazio, come l'invisibile nascosto da ciò che fa barriera all'occhio o all'orecchio (grotta, cassaforte, tenda o schermo). Nei codici a chiave rivelata tutto è pubblico, ma si stabilisce un tempo di calcolo insostenibile: il messaggio cifrato può essere calcolato per intero, ma ciononostante resta invulnerabile, dato che le operazioni potrebbero durare migliaia, se non miliardi, di anni. Inoltre, non appena si rischia che i tempi di soluzione si avvicinino, si può sempre cambiare rapidamente il codice, e il segreto (di Pulcinella) resterà inviolato. Quindi, nuovamente, il segreto è in corso, è in movimento, è nascosto nel cono d'ombra del tempo.

Un altro esempio, che aiuta a capire tutta una serie di pretese apparentemente contraddittorie, è quello degli scienziati, i divulgatori più accaniti, che pretendono che tutte le loro scoperte vengano «messe in chiaro». Ma basta pensare a tutte le grandi corse contemporanee verso la scoperta per accorgersi di come qualsiasi laboratorio usi tutte le tecniche di «messa in segreto» e «messa in codice» per non far sapere quello che sta facendo al laboratorio concorrente. Quindi, per gli scienziati è assolutamente ovvio pretendere il massimo di segretezza nelle loro operazioni e il massimo di divulgazione nei loro risultati.
Chi ha visitato un grande centro di ricerca sa che i laboratori funzionano con i testi già pronti sulle telescriventi mentre ancora si fanno i calcoli, per battere sul tempo i laboratori avversari in modo da potersi aggiudicare nuovi fondi per la ricerca. E, nello stesso tempo, chi pensa che potrebbe perdere questa corsa è già pronto a riorganizzare la dimostrazione dei risultati per orientarli altrimenti. L'aspetto strategico è tale che se riducessimo la problematica del discorso scientifico alla relazione antologica fra la verità e l'essere, perderemmo di vista quanto accade di appassionante.”


Complimenti dott. Fabbri per il lucido contributo alla comprensione del “segreto dei segreti”.

Durante il percorso formativo i nostri allievi attingeranno ulteriori informazioni e spunti intellettuali da 80 libri tutti dedicati alla ridefinizione del concetto di segreto e da me selezionati in oltre venti anni di ricerche.
Come ho già detto, le fonti aperte sono la frontiera futura dell’Intelligence Culturale.
Per questo, tra gli altri, avevo selezionato, oltre dieci anni addietro, il nome di Alessandro Zanasi che finalmente era approdato in occasione del primo convegno sullo Stato Intelligente, (insoddisfatto a suo dire del rapporto con la Link Campus University), in Ipazia Preveggenza Tecnologica grazie alla filiera di garanzia Shalom Babouth - Laura Caserta.

A quel punto, anche io avrei temuto che i pensieri e le critiche all’ambiente e ai comportamenti dei Servizi Segreti che si elaboravano in Ipazia Preveggenza Tecnologica si saldassero alle capacità scientifiche dell’ing. Alessandro Zanasi, uno dei massimi esperti mondiali di text mining.
Il text mining che è lo strumento che permette di trattare documenti e dati (strutturati e destrutturati, da fonti aperte e chiuse, banche dati, Internet, pubblicazioni cartacee) con strumenti di analisi e catalogazione automatica che rendono note le conoscenze nascoste, implicite e che identificano la lingua in cui sono scritti, estraggono concetti chiave, nomi propri e frasi, classificano un documento in funzione della rilevanza rispetto a uno specifico argomento, problema o chiave di interpretazione, collegano le informazioni tra di loro in relazioni spaziali o temporali, scoprono legami o catene di informazioni legate fra di loro, effettuano analisi incrociate e correlazioni di informazioni, e permettono l’utilizzo congiunto di package statistici. Così, si possono analizzare volumi immensi d’informazione, in tempo reale o in differita, identificando relazioni e strutture che altrimenti sfuggirebbero alla capacità analitica dell’essere umano.

Questa è la base dei processi formativi che sono pronti nella scuola “Guglielmo da Baskerville”.
E così, orrido Amalek, hai saputo, con una corte di ingenui alleati che si sono attivati per servirti, aggredire il disegno. Vedremo come va a finire.

Oreste Grani
 
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Oreste Grani
view post Posted on 26/8/2012, 17:43




Buongiorno morituro Amalek,
la puntata di oggi è dedicata alla chiaroveggenza di Ipazia Preveggenza Tecnologica e alla sua origine.
“Quarant’anni dopo la sua nascita, il regime libico di Muammar Gheddafi appare stabile e forte come non lo è mai stato…” (Minchiaaaaa!!!); “… Hanno permesso al regime di rafforzarsi facendo eclissare ogni possibilità di regime change guidato dall’esterno…” (Sic!!!!); “… sul fronte interno il consenso pare non abbia grandi oppositori…” (Aiuto!!!); “… importanti banche sono state privatizzate e anche le banche italiane, nazionalizzate negli anni Settanta, stanno tornando in Libia…” (Minchia2!!!!); “… Tramite il Fondo sovrano Libyan Investment Authority sono aumentati i grandi investimenti in aziende occidentali, soprattutto in Italia (Eni, Enel, Unicredit le più importanti)…”; “… sotto la guida di Bashar al-Assad, succeduto al padre Hafez nel 2000 e rieletto presidente nel 2007 per altri sette anni, la Siria è un Paese politicamente stabile…” (Aiutissimooo!!); “… con l’avvio di relazioni diplomatiche formali con il Libano ad aprile 2008 è iniziata una progressiva “riabilitazione” politica ed economica della Siria che sta consentendo al Paese di uscire gradualmente dall’isolamento internazionale …” (Cazzooo!!!); “… in Tunisia, sotto l’indiscusso potere del Presidente Zine el-Abidine Ben Ali …” (questi analisti iettatori!!!); “…La politica internazionale dell’Egitto è basata su due cardini: la valorizzazione della posizione geografica transcontinentale (tra Africa ed Asia) e la volontà di ricoprire il ruolo di leader dei Paesi arabi. La recente ambizione del Presidente Hosni Mubarak di fare dell’Egitto il raccordo tra Occidente, Medio Oriente e Africa pone le basi di quella opzione occidentale che fu giocata da Sadat negli anni settanta con la firma degli accordi di pace con Israele e l’avvio dei rapporti di amicizia con gli Usa… Il governo egiziano sta cercando di giocare un ruolo di mediazione tra Israele e Hamas…”.

Questo è solo un campionario delle castronerie che hanno preceduto la cosidetta “primavera araba” sulla stampa nazionale che, per una forma estrema di rispetto, non cito nei dettagli delle fonti e gli autori di quelle idiozie.

Viceversa, come molti sanno, in Ipazia Preveggenza Tecnologica si è previsto, con largo anticipo, la fine di Mubarak, di Ben Alì e soprattutto di Gheddafi.

Perché Ipazia Preveggenza Tecnologica è riuscita, nel tempo, a svolgere questa funzione di analisi e previsione che sarebbe peculiare delle strutture istituzionali di intelligence?
Perché quella di Ipazia Preveggenza Tecnologica è un’avventura che in nessun modo può essere riassunta a parole in quanto è stata prima di tutto un esperimento di integrazione dei codici espressivi tra i più visionari che l’incontro tra politica, storia, arte, scienza, filosofia abbia mai tentato. Un vero e proprio lavoro di ricerca, una costruzione di percorsi e di letture che solo la redazione della rivista “Sfera” aveva, prima di noi, tentato e realizzato.

In realtà non esiste il segreto della chiaroveggenza di Ipazia ma è esistita un’abilità imitativa, di arte che nasce dall’arte, che vede nel mensile voluto da Giulio Macchi, pioniere della diffusione della cultura scientifica, inventore visionario di quegli "Orizzonti della scienza e della tecnica" che è, a tutti gli effetti, il padre di Quark e il nonno di tutti i progetti di divulgazione scientifica televisiva e di un grafico con il gusto della sperimentazione, Piergiorgio Maoloni, il modello da imitare.

A questa coppia geniale si aggiunse una redazione giovane, prevalentemente al femminile con a capo, quasi fino alla fine, Maria Vitale e via via composta da Alessandra Mauro, Adele Gerardi, Marina Marrazzi senza dimenticare l'infaticabile Renata Durante.
Il filo rosso che mi ha portato a scoprire, nel novembre del 1988, “Sfera” editata dal Gruppo Sigma-Tau nell’ambito degli investimenti culturali strategici voluti dal suo fondatore Claudio Cavazza (molto del meglio del Festival dei Due Mondi di Spoleto era dovuto al sostegno economico della Sigma-Tau) si chiama Piergiorgio Maoloni.

Avevo conosciuto il geniale grafico una decina di anni prima quando, dal 1976 al 1978, come ho già raccontato, frequentavo e analizzavo l’arcipelago della sinistra extra parlamentare e i crogiuoli ideologici del terrorismo. Maoloni, creativo insuperabile, aveva prestato la sua opera a non poche riviste di quei mondi come ricorda Paolo Portoghesi in occasione della sua scomparsa: «L'ho conosciuto al Messaggero, lo chiamavano Mao. Era un uomo di grandi entusiasmi, ma anche di silenzi improvvisi. Ha rivoluzionato il mondo della grafica liberandosi dall'iper-razionalismo degli anni Trenta e usando il computer come uno strumento di grande libertà e fantasia». Nato a Orvieto ha disegnato il Manifesto ha riprogettato Paese Sera, Il Giorno, La Stampa, L'Avvenire, L'Unità, L'Unione Sarda, Il Giornale di Sicilia, Il Giornale di Brescia. Ha firmato Cuore, innovativo settimanale di satira politica, ha lavorato in America (la prima volta partì senza sapere una parola di inglese), ha realizzato manifesti, copertine di libri, cataloghi. Ha liberato i giornali dalle gabbie, dall'invadenza del piombo, ha insegnato a calibrare gli spazi bianchi, a usare le immagini. «Negli anni della mia direzione alla Biennale di Venezia la sua collaborazione è stata importantissima», continua Portoghesi, «per il settecentesimo anniversario del Duomo di Orvieto abbiamo realizzato insieme una specie di macchina barocca.
Nel libro “Roma un'altra città”, nel quale raccontavo, le nefandezze avvenute durante il regime, il suo stile ha segnato le pagine, come le didascalie a caratteri grandissimi. Un elemento accessorio trasformato in protagonista». I suoi esordi in una casa editrice cattolica, poi negli anni Settanta la rivista Ragazza pop, la militanza nelle file di Autonomia operaia e la pubblicazione de I Volsci, dall'omonima, celebre strada "rossa" del quartiere romano di San Lorenzo, dove c'era la sede della redazione. I suoi studi, il primo in via dei Pianellari, poi l'ultimo, grandissimo, in via Monserrato, tutte e due nel centro storico della capitale, erano una sorta di bottega dell'arte. Ci passavano direttori di quotidiani, editori, amici; un'assemblea continua con il sottofondo di radio e televisione che erano sempre accesi. E poi c'era la sua immensa biblioteca, con le raccolte di fumetti (da Gordon Flash a Mafalda), i disegni, le foto, i grafici, materiale questo che presto sarà raccolto e catalogato per dar vita all'Archivio Maoloni, a Orvieto. Ultimamente Maoloni si era occupato del restyling dell'Università Lateranense, ripensando e rinnovando tutta la comunicazione dell'ateneo; per Napoli aveva curato con Enzo Ciceri il progetto "Arte moderna", dai cataloghi all'immagine museale. La malattia gli ha impedito di continuare la collaborazione appena iniziata con il patriarca di Venezia, Scola: una rivista dedicata al dialogo tra Islam e mondo cattolico.”

Come si legge nell’articolo di Repubblica che riporta l’intervista a Paolo Portoghesi, non si fa nessun riferimento a “Sfera” che invece, a mio giudizio, è il pezzo forte dell’opera di Maoloni.

E infatti “Sfera” è prima di tutto: “un esperimento di integrazione dei codici espressivi tra i più visionari che l'incontro tra arte e scienza abbia mai tentato”. Recita il sito ufficiale di “Sfera”. Come vi siete accorti la frase è la stessa che ho usato per descrivere il modello culturale di Ipazia Preveggenza Tecnologica. Ancora il sito: “Così come capita al visitatore di una mostra - così come ora è possibile navigando, secondo le leggi tipicamente inter e ipertestuali della rete - il lettore di Sfera ha sempre avuto davanti a sé più di un percorso da seguire, diverse alternative e un'infinità possibilità di ripetere la visita, infilando il tragitto da un testo prima tralasciato, da un'immagine ignorata con iniziale distrazione. L'incontro tra arte e scienza, il gioco di specchi e di rimandi incrociati ha funzionato da codice d'accesso a più di un piano di confronto: quello tra la scientificità dei testi e il carattere artistico dell'apparato iconografico; quello tematico, delle dicotomie, che ha accompagnato tutti i numeri anche quando il progetto editoriale ha subito piccole o più sostanziali modifiche; quello tra la linearità presupposta dalla lettura e la tridimensionalità degli spazi cognitivi costruiti per ogni fascicolo; quello tra impresa e promozione culturale che ne ha determinato la possibilità e ispirato la ricerca.
Quello che c'è stato di originale, quello che è ancora evidente per ogni nuovo, occasionale navigante in rete di Sfera, è l'assoluta autonomia delle sostanze espressive utilizzate. Non vi è mai, infatti, illustrazione grafica, pittorica o comunque figurativa dei contenuti tematici; non c'è nemmeno commento o esercizio di analisi critica dell'immagine. Pur facendo capo alla stessa redazione i percorsi tematici e la ricerca iconografica si sono sviluppati in assoluta e diremmo radicale indipendenza, contribuendo alla scoperta di impreviste relazioni piuttosto che all'illustrazione di quelle già note. (Questa è Intelligence Culturale allo stato puro). E non solo: un ulteriore percorso si è realizzato ogni volta nel progetto grafico, dove gli elementi di riconoscibilità sono rimasti costantemente al minimo - una sorta di menabò appena abbozzato - offrendo al disegno della pagina e dell'intero fascicolo un'occasione di sperimentazione non casualmente studiata con profitto dai professionisti del settore grafico-pubblicitario. Un vero e proprio lavoro di ricerca, una contaminazione di percorsi e di letture che ha sempre rappresentato lo sfondo comune a tutta la proposta culturale del gruppo Sigma-tau: da Sfera, appunto, alle diverse e varie attività della sua Fondazione.
Questa radicale autonomia di percorso tra la pagina scritta, l'immagine figurativa, l'impaginazione grafica, risulta oggi consustanziale al carattere di ipertesto che assume ogni prodotto lanciato nella rete. In questo senso l'opportunità per il viaggiatore cibernetico non è puramente archivistica: si tratta invece di un'esperienza originale che il progetto di Sfera prevedeva con, come dire, una sorta di chiaroveggenza tecnologica. (Chiaroveggenza o preveggenza tecnologica. Tutto qui). Così, se l'indipendenza dei testi scritti è testimoniata dalla ricchezza di stimoli che il lettore delle pagine che seguono troverà ancora freschi e affatto nostalgici di ciò che pure li accompagna, una volta esaurita con profitto la lettura di questi - o insieme alla loro lettura - si dà sempre il caso di riprendere il filo delle immagini, per accedere ad altro, per verificare un ulteriore percorso. Se l'originalità di Sfera sta infatti nella complementarità dei suoi elementi non vorremmo tacere la bellezza, in assoluto, delle immagini e del progetto grafico, conseguenza per entrambi di una ricerca raffinata, colta, attenta ad evitare il ricorso all'iconografia più tradizionale, a volte volutamente sconcertante come in quasi tutte le soluzioni grafiche sperimentate. Una ricerca al limite e del limite, dentro i territori sfumati e incerti tra arte e scienza con l'obiettivo di ricostruire nella geometria della Sfera quella "tecné" di cui, a ragione, la filosofia attuale denuncia ancora la rimediabile perdita.”

Specchi, codice di accesso, dicotomie e il loro superamento sono alla base del processo formativo per i nuovi operatori di Intelligence previsti in Ubiquità. È tra gli articoli di “Sfera” dal 1988 fino al 1995 che ho scoperto Edgar Morin e la complessità della sua trasdisciplinarità. E tra quelle pagine che ho capito la genialità di Alan Mathison Turing e cosa fossero la Paura e il Coraggio, l’Ordine e il Disordine, la Memoria e l’Oblio, il Nascosto e il Palese, il Transitorio e il Permanente, il Vero, il Falso e l’Autentico.
Dopo, molto tempo dopo, arriva l’incontro, de visu, con Edgar Morin a Nardodipace.

Ho frequentato lo studio professionale di Piergiorgio Maoloni per il piacere di stare a contatto con una persona fuori dall’ordinario ma anche perché, nella progettazione grafica di una rivista, ci può essere (e così era) il segreto di un progetto politico.
È lì che, vedendo e leggendo tra le righe, capivo cosa stava per accadere e come poteva, eventualmente, accadere. Prima che accadesse.
Nel 1988 Macchi e Maoloni misero in moto, senza volere, l’avventura di Ipazia e soprattutto mi aiutarono, inconsciamente, a partorire l’idea che è alla base della Scuola di Intelligence Culturale “Guglielmo da Baskerville”.

Con questo voglio servire la verità e omaggiare l’arte e la scienza dell’insuperabile Piergiorgio Maoloni.


Oreste Grani
 
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Oreste Grani
view post Posted on 2/9/2012, 17:33




Lurido Amalek (mai epiteto è stato usato più appropriatamente e al momento opportuno) le riflessioni odierne sono tutte dedicate alla Giornata Europea della Cultura Ebraica.
Per la prima volta, dopo molti anni, non partecipo a nessuna delle manifestazioni indette nella giornata odierna. Ero stato invitato, prima del tuo attacco proditorio del 14/2/2012, dal Rabbino Capo di Napoli e dell’Italia Meridionale Mino Shalom Bhabout a dare il mio contributo, anche organizzativo alla “Lech Lechà – Settimana di arte, cultura e letteratura ebraica” che si sta tenendo a Trani, Barletta, Andria, Bari, San Nicandro Garganico, Manfredonia, Brindisi, Oria, Nardò, Lecce.
Spero che tutto vada bene alla faccia tua e dei nemici di Israele.


Per causa tua ho perso Ipazia Preveggenza Tecnologica e gli strumenti che avrei usato per ribadire le mie convinzioni culturali e politiche.
Ma non demordo e, sia pur nella solitudine, pubblico un ricordo legato ad un caro amico (Roberto Cuillo) e un’augurio per un futuro possibile per Roma guidata da un sindaco, emulo del grande Ernesto Natan.

Il 15/4/2012 si tenne, a Roma, una marcia di solidarietà con Israele, come protesta contro le posizioni pro-palestinesi di molti organi di informazione e lo strepito anti israeliano d’una parte della sinistra. Gli organizzatori (prioritariamente Giuliano Ferrara direttore del Foglio) intendevano dimostrare il loro attaccamento allo Stato ebraico, e il timore che esso si potesse venire a trovare, sotto la spinta del terrorismo palestinese, sull’orlo della spartizione.
Roberto Cuillo (a cui penso spesso con stima e affetto) scriveva le parole civili, saggie, lungimiranti che seguono dall’indirizzo elettronico di Kami Fabbrica di Idee perché in quel periodo professionalmente era presso i miei uffici dopo che, per incompatibilità di tipo culturale, politico, etico, morale si era allontanato dalla direzione dei DS e da palazzo Chigi troppo connotati dall’approccio culturale, politico, etico, morale di Massimo D’Alema, Claudio Velardi ed altri.

Cuillo rimase con me tutto il tempo che volle, libero di tornare a lavorare con il Partito non appena lo avesse ritenuto opportuno o lo avessero richiamato. E così fece Piero Fassino non appena divenne segretario del partito, tenendolo vicino a se, per anni, con vari incarichi fino a quando, non so chi, ritenne che l’inutile Marco Follini fosse più adatto a rappresentare i DS in Rai al posto di Cuillo.
La sinistra è piena di ciucci presuntuosi che pensano e fanno, da troppi anni, cose senza senso. Per questo Silvio Berlusconi, con i rappresentanti dei lavoratori, ci ha giocato a palla quando e come ha voluto.
Per questo il Paese è ridotto com’è ridotto.
Per questo, soprattutto in politica estera siamo senza strategia.
Sono i “gattopardi” di destra e di sinistra che ci tengono inchiodati a un modello di società senza libertà e giustizia.

Il 10/4/2002 Roberto Cuillo scriveva a Giuliano Ferrara:
“lo non dimentico una battaglia politica, condotta negli anni '80, da me, giovane comunista, da Oscar Giannino, dirigente dei giovani repubblicani, da Renzo Lusetti, giovane democristiano e da Clelia Piperno della gioventù ebraica.
Eravamo insieme a Mosca, nel 1985, alla riunione preparatoria del Festival Mondiale della gioventù, in quella riunione ci battemmo per 56 ore di fila per cancellare dal programma del festival la istituzione del tribunale contro il sionismo. Insieme a noi un manipolo di giovani socialisti europei e pochi altri. Combattevamo, con tenacia e ostinazione, contro l'equazione sionismo=razzismo=imperialismo. Ricordo bene che questa battaglia politica era condivisa pienamente dal gruppo dirigente della FGCI di quegli anni: Pietro Folena, Nichi Vendola, Franco Giordano, Fabrizio Rondolino, Luciano Vecchi, oltre al sottoscritto. Su questo eravamo uniti, tra noi giovani comunisti e con gli altri.
Per questo non ho nessuna difficoltà ad aderire alla giornata del 15 Aprile.
Continuo a pensare che il passaggio dall'antisionismo all'antisemitismo può essere breve e devastante per tutti.
Continuo a pensare che la sinistra italiana deve continuare a considerare Israele, ciò che rappresenta nella storia recente dell'umanità, come parte del proprio DNA.
Continuo a pensare che due popoli e due stati debbano poter convivere pacificamente sulla stessa terra, riconoscendosi reciprocamente il diritto all'esistenza e alla sicurezza di ognuno.
Continuo a pensare che il terrorismo va combattuto, sempre.
Continuo a pensare che semplificare in buoni e cattivi il conflitto mediorientale sia un esercizio non solo stupido ma estremamente pericoloso.
Continuo a pensare che qualsiasi sinistra, riformista ed europea, non può prescindere dai valori e dal significato profondamente socialista del Kibbuz.
Non possiamo combattere Israele. Possiamo combattere Sharon, ma non Israele. E se condanniamo Israele condanniamo anche il futuro del popolo palestinese, perchè i due popoli sono legati da un destino indissolubile.
Aderisco quindi, da ex comunista, da socialista, da uomo di sinistra, da militante dei DS, senza remore e senza pregiudizi, consapevole e cosciente.

Saluti
Roberto Cuillo”




Grazie a Cuillo, nel periodo in cui onestamente collaborammo, potei incontrare il sen. Massimo Brutti, persona competente e rispettosa del dettame costituzionale come poche ho conosciuto. Inoltre, mantenendo, fra noi, un buon rapporto negli anni, sempre grazie alla sua mediazione incontrai l’on. Maurizio Migliavacca per tentare una rappacificazione tra Pierluigi Piccini (ex comunista ed ex sindaco di Siena) e il partito da cui era stato espulso. Dopo una lunga gestazione, per me estremamente impegnativa, l’incontro avvenne a Roma, all’hotel Splendide Royal, nella suite 508.
Il conto dell’alloggio e del pranzo lo pagò Piccini, ma non Pierluigi.
Ma questa, come spesso dico, è un’altra storia.

Oggi 2 settembre 2012, nel ricordo di tutte le indifferenze, gelosie, crudeltà, violenze, calunnie che hanno, nei millenni, colpito gli ebrei vi propongo, in omaggio ad Ernesto Nathan ebreo, laico e massone, l’articolo di Domenico Pertica.
Che l’operato di Ernesto Nathan sia di esempio a chi vorrà, a primavera 2013, candidarsi alla guida della Città Eterna.


“Nathan: il sindaco di Roma moderna

Laico, massone, interprete di una indiscussa trasparenza e integrità politica, Ernesto Nathan dal 1907 al 1914 guidò l'amministrazione capitolina in una serie di iniziative tese ad una moderna municipalizzazione dei servizi, dall'Atac all'Acea, dal demanio comunale ai musei, dando un contributo decisivo allo sviluppo di Roma con l'edificazione del quartiere Prati e la costruzione di case popolari.
Alto, distinto, «caramella» all'occhio sinistro, ti sembra ancora di vederlo scendere dal landò comunale che puntualmente l'accompagna in via Torino 122, un palazzo tutto frastagli e fiocchi, stile belle époque, acquistato per la sua numerosa famiglia: moglie e sette figli.
Quando scende e il cocchiere gli apre con un inchino lo sportello, si toglie rispettosamente la bombetta e ringrazia in un italiano dall'accento inglese. È il grande sindaco, Ernesto Nathan, che in questo palazzo visse per 18 anni; il sindaco laico che sognò la Roma moderna.

Il 2 dicembre del 1907 con 60 voti favorevoli e 12 astenuti, veniva eletto con le liste dell'Unione Popolare sostenuta dal «Messaggero», comprendente Iiberal-popolari, radicali, repubblicani e socialisti.
Programma: incremento dell’istruzione elementare, potenziamento dell'igiene pubblica, politica edilizia contro le speculazioni, partecipazione della popolazione ai problemi della città. Dopo 37 anni il Campidoglio assisteva allo strano evento di avere un «primo cittadino» non romano, di origine inglese, israelita, massone, repubblicano.
Nato a Londra il 5 ortobre 1845, si disse fosse figlio di Mazzini al quale la madre, Sara Levi di Pesaro (detta «Sarina») fu legata da sentimenti che superarono quelli dell'ammirazione per la causa italiana. D'altra parte Mazzini era stato ospitato a Londra dai Nathan, e ferventi discepoli ne divennero i due giovanissimi Giuseppe ed Ernesto che parteciparono alla congiura e all'azione patriottica.
Quando l'Italia si avviava alla liberazione, nel 1859 la famiglia Narhan immigrò soggiornando in diverse città, fra cui Pisa dove in via della Maddalena n. 38 la sera del 7 febbraio 1872 mori «l'apostolo» dell'Unità nazionale. Un Giuseppe Mazzini «pallido e terreo con crine e barba canuti...» come lo descrive il dottor Giovanni Rossini che la signora Nathan-Rosselli chiamò al capezzale del signor «Giorgio Brown» per raccoglierne l'ultimo respiro.
Più a lungo soggiornarono a Milano dal 1862.
Giuseppe ed Ernesto chiesero ed ottennero la cittadinanza italiana nel 1888 e per lunghi anni continuarono la propaganda del pensiero mazziniano. Per una più ampia diffusione del pensiero del grande Maestro, diedero vita alla rivista «Il Dovere». Dopo il '70, Ernesto, che nel 1867 si era unito in matrimonio con Virginia Mieli, seguì nella capirale Giuseppe Mazzini che gli affidò l'amministrazione della rivista da lui stesso fondata: «Roma del popolo».
La testimonianza della devozione alla memoria di Mazzini è data anche dal fatto che il Nathan fu uno dei più ricchi collezionisti di autografi che poi donò allo Stato, promuovendo, nel 1905, l'edizione nazionale degli scritti del grande esule.

La sua casa in via Torino, dove sull'architrave del portone d'ingresso si notano le iniziali E e V intrecciate dei coniugi Nathan, divenne un assiduo ritrovo intellettuale e politico, frequentata da personaggi come il Villari, il Carducci, Crispi, Zanardelli, Fori, Sonnino, Sgambari, Barzellorri.
L'unico appunto, che specie dai giornali umoristici del tempo gli veniva mosso, era l'imperfetta conoscenza della lingua italiana. Il «Travaso delle idee» lo ritraeva a fianco di un ometto che raffigurava l'interprete, il quale reggeva un vocabolario italiano-inglese e, sotto, riportava qualche grosso svarione ch'egli aveva pronunziato, come una volta, durante un discorso commemorativo della guerra d'Etiopia, invece di dire: l'ecatombe di Dogali, disse «le catacombe di Dogali». Ma questa aneddotica non influisce sulla figura morale e politica del grande sindaco.

Cent’anni fa Roma usciva dagli scandali della Banca Romana, dal saccheggio del patrimonio ecologico e culturale che significa la distruzione in blocco delle ville suburbane per farvi sorgere i quartieri umbertini dell'Esquilino, Castro Pretorio, Sallustiano, Ludovisi e Prati. Usciva dalla «febbre edilizia» i cui danni fecero piangere Gabriele D'Annunzio nella Vergine delle rocce davanti allo «schianto dei pini ludovisii». C'era stata la crisi edilizia che lasciò incompiute le costruzioni del rione Prati, il cui spettacolo «spettrale» impressionò molto lo scrittore francese Emilio Zola il quale scrisse di aver avuto l'impressione di trovarsi davanti a una «città popolata dagli scheletri dei palazzi». Ecco, allora, cosa fece per Roma Nathan.

In linea con la politica giolittiana che promosse la nazionalizzazione delle ferrovie e dei telefoni, provvide alla «municipalizzazione» dei servizi pubblici cittadini, fondando le aziende municipali dell'ATAC per i trasporti, e dell'ACEA per l'illuminazione. Un grande amministratore lo coadiuvò e ne divenne il geniale esecutore: Giovanni Montemartini. Un busto e una lapide nella sede dell'ATAc in via Volturno e la centrale termoelettrica dell'ACEA in via Ostiense (oggi uno splendido museo) a lui intestate ricordano questo modesto e grande «capitolino» che mori al posto di lavoro sui banchi del Consiglio comunale, schiantato da un infarto.
Narhan ideò la «Scuola Rurale» e le «Borgate Rurali» nella lontana periferia ostiense, con annessa Delegazione per lo stato civile. In pratica veniva realizzato un «decentramento» amministrativo simile all'attuale modello dei Municipi.
Per la prima volta attuò il sistema referendario.

Il 20 settembre 1909, i cittadini chiamati alle urne furono 44.595 per esprimere il loro parere pro o contro la municipalizzazione. Promosse il referendum sulla libertà dell'insegnamento religioso nelle scuole. In più ottenne sussidi speciali per il Piano Regolatore Sanjust di Teulada in accordo con le leggi-Giolitti e secondo i programmi del Blocco-Narhan che si orientavano verso la demanializzazione delle aree e il disegno di una «Città a villini». Su questo binario sorsero (e sorgeranno) modelli e tipologie popolari che vediamo al Testaccio le cui case popolari disegnate dagli architetti Magni e Pirani sono un'antologia di architettura sociale, S. Croce in Gerusalemme, San Saba, «Città Giardino» a Monte Sacro, Monteverde Nuovo.

Castel Sant'Angelo da caserma fu trasformato in museo. Ricordiamo l'allargamento di via Tomacelli, il progetto della Galleria Colonna del l'arch. Carboni, l'allargamento del secondo tratto di via del Tritone con la costruzione del bel palazzo liberty per l'hotel Select (oggi Messaggero), la sistemazione del Muro Torto dove fu attivato un elegante ascensore tutto foderato in velluto rosso che portava al Pincio, i quartieri Trionfale e Flaminio, la politica sociale a Testaccio e a San Lorenzo dove vennero aperti i primi «Centri Montessori» per un a educazione moderna dei bambini.

Al Testaccio - rione pilota della politica sociale - si verificarono le prime esperienze degli «alberghi del popolo e delle «mense» per i poveri.
A Trastevere viene inaugurata la scuola elementare «Regina Margherita» e così tutte le altre scuole nei vari rioni di «stile umbettino» sono tutte edificate dall'amministrazione Nathan. L'Augusteo veniva trasformato in sala per concerti «dove l'operaio per quattro soldi può sentirsi i migliori direttori» (parole di Nathan).

Nel 1911 inaugura la grande Esposizione Nazionale a Piazza d'Armi (oggi zona di piazza Mazzini-viale Marcello Prestinari) per il cui accesso fu aperto il viale delle Belle Arti e gettato il ponte del Risorgimento capolavoro ardito del cemento armato, a un solo arco, costruito dall'impresa Porcheddu e disegnato dall'architetto Hennebique. Il successo politico ed economico dell'Esposizione fu tale che diede fastidio alle fazioni avverse, a tal punto, che si arrivò perfino a mettere in giro la voce che a Roma - sentite questa! - era scoppiato il colera, pubblicando sui giornali delle fotografie di operai sdraiati tranquillamente sugli scalini del monumento a Vittorio Emanuele Il nelle ore di riposo, e facendo credere - niente meno! - che invece erano tanti «morti di colera colà abbandonati».

Nel 1911 si inaugura il ponte Vittorio e, per lo sport, viene creato lo Stadio Nazionale (l'attuale stadio Torino al Flaminio). Sempre nel 1911 furono iniziati i lavori per i Mercati Generali all'Ostiense e nello stesso anno fu inaugurato il palazzo di Giustizia. Ma l'inaugurazione più solenne fu quella del monumento a Vittorio Emanuele.

La modernità del Nathan è imprevedibile.
Per le stagioni del Teatro Costanzi predispone un inserimento di giovani compositori, artisti tutti italiani. Parla in difesa delle «forme nuove», parla della moda musicale, e scrive: «In verità vi è una lacuna ... bisogna ammettere l'assoluto abbandono di un aspetto dell'arte. Tersicore è stata trascurata, anzi, ignorata: il "Tango", “One Step”, il "Cake Walk", il "Cancan", non furono mai oggetto degli amministratori». Questa osservazione e puntualizzazione nsu un momento abbastanza importante dell'evoluzione dei costumi riflette la sprovincializzazione della linea-Nathan, il suo europeismo e l'internazionalismo laico.

Una delle barrure ufficiali di Nathan che fecero scalpore sulla stampa e soprattutto sui giornali umoristici fu quando disse: «Qui non c'è trippa pe' gatti», magari pronunciando la celebre espressione che poi «entrò» nel gergo romanesco, con un tantino di «erre» moscia, e con accento itala-inglese.
Perché la disse? Pare che, nell'esaminare lo schema di bilancio preventivo che gli avevano posto sotto il naso, notasse l'iscrizione di uno stanziamento, sia pure modesto, ma molto curioso, destinato all'acquisto della trippa. «Ma come! - disse. – Chi mangia trippa al Campidoglio?», Gli fu risposto che la trippa era destinata ai gatti da mantenere negli uffici capitolini infestati dai topi. «Oh bellal» sussultò togliendosi di scatto la «caramella» in castrata nell'occhio sinistro. «Oh bella!» e puntò occhi e naso all' insù verso il tremebondo impiegato che gli stava di ritto a fianco, con il conto in mano. «Ma i gatti non mangiano i topi? E, allora, che ragione c'è di somministrare al gatto la razione di trippa?». Alle timide e inefficaci giustificazioni dell'impiegato capitolino, tagliò corto dicendo: «O ci sono i topi e allora i gatti mangino i topi; o non ci sono i topi, e allora, caro lei, qui non c'è trippa per i gatti». La frase usciva come un coriandolo da quella bocca onesta, e fece il giro di tutta Roma casa per casa vicolo per vicolo.

Un discorso che fece epoca fu quello pronunciato il 20 settembre 1910 a Porta Pia. Suscitò il risentimento di Pio X per un «cumulo di empie affermazioni, quanto gratuito, altrettanto blasfemo ... ». Nathan aveva semplicemente detto: «Una Breccia attraverso la quale penetrò la libertà di coscienza insieme alla libertà di sviluppo materiale ... ».
La polemica si allargò al Quirinale. Ma al re, il bellicoso sindaco, mandò a dire in un telegramma: «Mi sono soffermato sul passato per mettere in rilievo quali siano i mali, quali gli inceppi filiati dal dispositismo, dal regno di una classe, sia pure quella sacerdotale, in nome della religione».
Un discorso che documenta la sua linea morale che vuoI creare una figura nuova di amministratore, pragmatico, lucido, vitale, non inquinato, è quello che pronunciò all'atto del suo insediamento: «Il programma dà piuttosto un indirizzo vivo e diverso. In una parola il tempo del lasciar passare, lasciare andare, del comodo ufficio di rappresentanza, senza consacrarsi anima e corpo alla funzione vitale amministrativa, alle questioni grosse e piccole, che si affacciano nel presente e ipotecano l'avvenire, è passato. Roma, per essere degna del suo nome, del posto che le compete nella Patria e nel mondo intero, ha obblighi da soddisfare, doveri da compiere, che si moltiplicano, si rinnovano nella misura in cui vengono soddisfatti.

Le tre città, l'antica, la medievale, la moderna, ognuna si para innanzi, ognuna chiede osservanza, cura ed opera, intrecciandosi in guisa da rannodare la vita fremente e pulsante con la tradizione, il presente col passato e coll'avvenire. Là sta il problema posto innanzi a chi si assuma ufficio di vegliare alle sorti cittadine, problema incalzante, imperativo.
L'Amministrazione popolare lo riconobbe, ne indicò il punto di partenza, il metodo; ad altri il continuare per questa via, affaticarsi a risolverlo, per il bene di Roma e dell'Italia».”


Oreste Grani
http://leorugens.wordpress.com
 
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Oreste Grani
view post Posted on 8/9/2012, 19:05




Nella sezione Storia del mio blog http://leorugens.wordpress.com/ inauguro il racconto dello stato dell’arte dell’Italia del 1994.
In quell’anno sale al potere Silvio Berlusconi che, da quella posizione dominante, di fatto, non è più sceso. Tanto meno il Paese si è liberato del berlusconismo e dei suoi sostenitori. Comincio con il pubblicare che illustrano, fornendo dati, a che punto fosse l’Italia dopo la cosidetta Operazione Mani Pulite.
Avrò come collaboratori in questo sforzo che spero serva soprattutto ai più giovani, firme eccellenti. In realtà, semplicemente, ho fatto una selezione di “ragionamenti”, che venivano proposti sui giornali in quei momenti drammatici.
L’Italia del ’94 appare un Paese con contraddizioni e ambiguità, con forti tensioni, con incertezza diffusa, con scoramenti, ma anche con volontà di cambiamenti radicali.

Ai pochi lettori del blog farsi un’opinione sulla portata di quei mutamenti vagheggiati, sulle occasioni mancate, e soprattutto, sui gattopardi traditori della Patria.
Il noto giornalista Paolo Graldi ci riassume così il 1993, l'anno degli scandali a catena.

Le inchieste giudiziarie, ma soprattutto le confessioni d’inquisiti, hanno travolto Parlamento, ministri, magistrati, Forze Armate, servizi segreti, e non hanno risparmiato né sacerdoti, né giornalisti. Non è stata solo Tangentopoli, ad affossare la prima Repubblica. Dalle pieghe di indagini, talvolta vecchissime, su lontani episodi di corruzione o di connivenza, sono rispuntati i fantasmi di Moro e Pecorelli. E non è stata (solo) una banale storia di mazzette a mettere fuori gioco personaggi come Giulio Andreotti, Scotti, Gava. È come se, d'un tratto, si fossero materiaIizzate tutte le ombre che hanno accompagnato il Paese per decenni, dando una spiegazione a episodi oscuri e a quegli intrecci tra poteri legali e occulti troppo spesso intuiti, ma mai sufficientemente dimostrati.

E sono cadute migliaia di teste. Quattromilaseicento arresti, per la sola Tangentopoli, ormai al suo secondo anno di vita; oltre 25.000 inquisiti; una decina di suicidi, due quelli illustri: Gabriele Cagliari e, qualche giorno dopo, Raul Gardini. Centinaia i parlamentari coinvolti nelle inchieste per concussione (157), corruzione (207), finanziamento illecito ai partiti (296), falso in bilancio, ricettazione (95), abuso d'ufficio (46). Sono i rappresentanti eletti in buona parte delle regioni italiane, nelle liste di quasi tutti i partiti. Il primato spetta a Lombardia (155 avvisi di garanzia), Campania (98), Lazio (60), Piemonte (56), Sicilia (36). Appena un anno fa, un anno dopo l'arresto, a Milano, di Mario Chiesa, si prevedeva che le inchieste di Mani Pulite non avrebbero portato a più di mille ordini di custodia cautelare in carcere. Una previsione abbondantemente superata, ma che all'epoca teneva conto solo di episodi minimi di corruzione, di mazzette da pochi milioni pagate per facilitare l'aggiudicazione degli appalti. I magistrati, che pure avevano già chiesto l'incriminazione di Craxi e Citaristi, non avevano ancora messo le mani sull'affare Enimont, che sarebbe scoppiato da lì a poco: la maxitangente da 150 miliardi pagata da Gardini ai politici perché non ostacolassero la vendita del colosso della chimica, del quale lui deteneva il pacchetto di controllo, e facilitassero l'approvazione del decreto sulla riduzione degli oneri fiscali.
Gardini ha preferito la morte all'onta del carcere, e si è suicidato a luglio, alla vigilia del suo arresto. Solo oggi, molto lentamente, i giudici milanesi stanno ricostruendo la destinazione di quel denaro, finito - attraverso disinvolte operazioni finanziarie - sui conti cifrati di banche svizzere e lussemburghesi. Una mano l'ha data Carlo Sama, cognato di Gardini, che ha fatto i nomi dei destinatari della tangente; un'altra Sergio Cusani, faccendiere dell'imprenditore ravennate, che nomi, nonostante una lunga detenzione, continua a non fame. Indagando sull'affare Enimont i giudici hanno dovuto fare i conti con un aspetto non certo secondario del sistema di corruzione: il riciclaggio del denaro «grigio», quello che, cioè, non è frutto né del traffico di droga o di armi, né dell'evasione fiscale. Accanto alla Svizzera, la «lavanderia» per eccellenza, spunta il Lussemburgo che, malgrado appartenga all'Unione Europea, continua ad offrire garanzie di segretezza e copertura ai suoi clienti. Le richieste di rogatoria sono rimaste inevase. Scandalo nello scandalo, non è possibile sapere con certezza, ed ufficialmente, che fine abbia fatto tutta la mazzetta Enimont.

Mancano all'appello, ad esempio, i soldi che sarebbero finiti nelle mani degli ex segretari del Psi, Bettino Craxi (75 miliardi) e Arnaldo Forlani (35 miliardi). Si sa che, dopo essere transitati per lo lOR, la banca vaticana che fu coinvolta anche nel crak del Banco Ambrosiano, sono finiti su due banche svizzere e, soprattutto sulla Bil del Lussemburgo. A detta di Francesco Pacini Battaglia, banchiere della Karfinco di Ginevra e testimone al processo Cusani, il denaro di quella tangente - ma comunque buona parte delle mazzette di Tangentopoli - è stato successivamente reinvestito nel circuito della speculazione internazionale.

Di fronte alle acrobazie finanziarie del gruppo Ferruzzi, scompaiono le vicende Cogefar e Olivetti, i due colossi dell'imprenditoria nazionale ugualmente coinvolti nelle vicende di Tangentopoli.
Per i gruppi che fanno capo alla Fiat e a De Benedetti (che è stato arrestato e scarcerato, in autunno, nella stessa giornata) si è trattato di un «banale» finanziamento ai partiti, pur se consistente.
Di tutt'altro spessore «morale», per così dire, è invece la vicenda sanità, ovvero la Poggiolini story, cha ha trascinato nel fango anche il ministro della Sanità, Franco De Lorenzo: una truffa ai danni degli ammalati fruttata 15.000 miliardi in dieci anni. Uno scandalo che ha portato anche alla morte misteriosa di uno dei componenti del Cuf-farmaci, Vittoria, e sfiorato il Nobel Rita Levi Montalcini.
Sembrava, invece, una «banale» inchiesta per corruzione quella sulle Partecipazioni Statali. Ma prima ancora che i giudici romani iniziassero ad approfondirne il ruolo nella vicenda Enimont, il direttore generale del ministero, Sergio Castellari, grand commis dello Stato e grande amico di Giulio Andreotti fu trovato morto.
Fu a lui, non ancora toccato dall'inchiesta dei giudici palermitani sulle collusioni tra Cosa Nostra e i politici romani, che Castellari si rivolse prima di ammazzarsi. Un'altra morte poco chiara, come per Vittoria, sia nella dinamica del suicidio, sia nelle sue motivazioni.

E il ruolo di Andreotti? Non è mai stato chiarito a sufficienza, ma è certo che allora, nel febbraio del '93, è diventato chiaro a tutti che la carriera del «Divo Giulio» era ormai, definitivamente avviata verso un inglorioso tramonto. Appena tre mesi dopo, infatti, il senatore a vita viene indagato per concorso in omicidio: quello di Mino Pecorelli, direttore di OP, ucciso nel marzo del '79. Pecorelli aveva dedicato ad Andreotti un numero mai uscito della sua rivista dal titolo di copertina «Gli assegni del presidente» (relativo ad un versamento che alla corrente andreottiana avrebbe fatto un gruppo industriale). Con i collaboratori più stretti dell'ex presidente del Consiglio (il governo di unità nazionale era caduto due mesi prima) Pecorelli - in base alla sua agenda aveva contatti: vi erano segnati molteplici incontri con l'allora sostituto procuratore Claudio Vitalone, con Franco Evangelisti, con Ciarrapico e i fratelli Caltagirone. Alcuni pentiti di mafia hanno confessato che il giornalista - tessera P2, molto vicino ad alcuni uomini dei servizi segreti, era stato ucciso per ordine dei cugini Salvo di Salemi e per fare un favore ad Andreotti, che si sentiva ricattato da Pecorelli. Una tegola dopo l'altra: un mese dopo arriva un nuovo avviso di garanzia per il senatore a vita, questa volta per concorso in associazione mafiosa. Lo firmano i giudici di Palermo sulla base delle accuse di due pentiti di mafia, tra i quali Baldassarre Di Maggio, ex autista di Totò Riina, che sostiene di averlo visto in compagnia del capo di Cosa Nostra e di essere entrato nel suo studio. Un avviso di garanzia anche a Corrado Carnevale, il presidente della prima sezione della Corte di Cassazione, il giudice «ammazzasentenze» che, secondo molti pentiti di mafia avrebbe «aggiustato» i processi che erano finiti con le condanne.

È l'autunno del '93, e stanno cominciando a vacillare non solo le segreterie dei più influenti politici italiani, ma addirittura i vertici delle istituzioni. Donatella Di Rosa, moglie di un tenente colonnello dell'Aeronautica, amante di un generale, amica di capi di Stato maggiore e bombaroli neri, denuncia un tentativo di golpe al quale avrebbe lei stessa partecipato assieme a marito, amante, amici e bombarolo. Cadono le teste delle stellette, prima tra tutte quella di Franco Monticone, che ammette la relazione con la giovane friulana, ma nega il tentativo di colpo di Stato. La Procura militare di Roma, crede ad una parte delle rivelazioni della donna e apre un'inchiesta su un presunto traffico di armi nel quale sarebbero coinvolti tutti i presunti golpisti. Fa storia a sé la vicenda di Gianni Nardi, estremista di destra morto nel 1977 a Palma di Majorca ma, secondo Donatella, vivo e vegeto. Solo da alcune settimane è stato autorizzato l'esame del Dna sui resti del cadavere sepolto in Spagna. La Di Rosa, una sorta di Mata Hari casereccia, fascinosa e logorroica, ha fatto riaprire anche altri fascicoli ormai pronti per l'archiviazione; come quello, ad esempio, sulla strage di Brescia.

Maturava, nel frattempo, la bomba del 3 novembre - lo scandalo Sisde, che ha travolto tre ministri dell'Interno, prefetti, funzionari dei Servizi e toccato il presidente della Repubblica - innescata verso la fine del '92. Il sostituto procuratore di Roma, Antonino Vinci, titolare dell'inchiesta sui «palazzi d'oro», spulciando tra i depositi bancari di un'agenzia della Carimonte, si era imbattuto nei conti correnti di cinque funzionari del Sisde. Maurizio Broccoletti, Gerardo Di Pasquale, Michele Finocchi, Antonio Galati e Rosa Maria Sorrentino disponevano complessivamente di 14 miliardi. Di Pasquale e Finocchi erano anche titolari di un'agenzia di viaggi, la «Miura travel», sul cui fallimento stava indagando un altro pm della Procura di Roma, Leonardo Frisani. I cinque 007 titolari dei conti miliardari erano stati interrogati da Vinci e fornirono la stessa versione, confermata dal loro ex capo Riccardo Malpica: quei soldi erano del Sisde, i conti correnti erano del Servizio, i soldi erano stati trasferiti a loro nome per motivi di «copertura». Ad aprile del '93 era scoppiata la polemica tra il capo del servizio segreto civile, Angelo Finocchiaro e il suo predecessore Alessandro Voci, che lo accusava di aver fatto pressioni su di lui perché avallasse la versione dei cinque funzionari.

A giugno gli «uomini d'oro del Sisde» erano stati formalmente accusati di peculato, veniva firmato l'ordine di custodia cautelare nei confronti di Broccoletti; il Gip si riservava di decidere su Galati, Di Pasquale, Finocchi e Sorrentino; a Riccardo Malpica era stato inviato un avviso di garanzia. Pochi giorni dopo Angelo Finocchiaro, che non aveva ricevuto nessun avviso di garanzia, veniva interrogato; Malpica aveva confermato la versione dei «conti di copertura». Ma il 19 luglio furono firmati gli ordini di custodia cautelare a carico di Galati, Di Pasquale, Finocchi e Sorrentino che cambiarono la versione: quei soldi depositati sui conti della Carimonte non erano del Sisde, ma personali. Erano i soldi dati in premio dai capi del Servizio per il lavoro svolto. La svolta vera, quella che apre le porte allo scandalo, ad ottobre, quando i magistrati romani trovarono altri conti correnti intestati ai cinque funzionari: complessivi 50 miliardi depositati su banche di San Marino e un considerevole patrimonio immobiliare. A quel punto Broccoletti, per difendere la tesi che quei soldi erano il corrispettivo di normali premi dati ai funzionari e prelevati dai fondi riservati del Sisde, fa i nomi delle altre persone che avrebbero beneficiato dei «regali»: Finocchiaro e «alte personalità politiche». Dopo le clamorose rivelazioni vengono firmati nuovi ordini di custodia cautelare. I cinque funzionari del Sisde sono irreperibili, finisce invece in manette Riccardo Malpica che cambia registro: la versione dei «conti di copertura» è falsa; fu concordata dai vertici per evitare lo scandalo. Ancora due giorni e si costituisce Galati.
Ai giudici consegna documenti riservati (i rendiconti delle spese effettuate dai fondi riservati) che, secondo il regolamento del Sisde avrebbero dovuto essere distrutti. È il 3 novembre quando le indiscrezioni sulle confessioni di Galati toccano ancora una volta Mancino e poi Scalfaro. Il funzionario del Sisde avrebbe raccontato che tutti i ministri dell' Interno dall '82 al '92, ad eccezione di Amintore Fanfani - e quindi Scalfaro, Gava, Scotti e Mancino - avrebbero avuto premi mensili di 100 milioni.

Dure le smentite di ministro ed ex responsabili del Viminale. Il presidente Scalfaro alle 22,30, attraverso le reti Rai e Fininvest, legge un messaggio alla nazione: 7 minuti in cui denuncia il tentativo di destabilizzazione delle istituzioni democratiche fatto prima attraverso le bombe (Firenze, Roma, Milano), poi con le calunnie.
Da quel giorno è un susseguirsi di rivelazioni, confessioni, denuncie.
I ministri dell'Interno, ad eccezione di Mancino, finiscono tutti indagati. Scalfaro non viene toccato, ma solo perché è il Presidente della Repubblica e, in quanto tale, non è imputabile. L'inchiesta non risparmia, invece, Adolfo Salabè, architetto di fiducia del Sisde e del Quirinale, amico di Marianna Scalfaro. Dei funzionari sotto inchiesta, Broccoletti - arrestato a Montecarlo - è ancora in carcere e continua a difendersi accusando. Ora, a conferma della bontà della sua versione, ha chiamato a testimoniare le sue stesse «vittime»: tutti i ministri dell'Interno, compreso Scalfaro”.


Ve lo immaginate affidarsi a qualcuno che dal Centro Situazioni del Quirinale, dal Ministero degli Esteri, dalla Sala situazioni dello Stato Maggiore della Difesa, non è in grado di rispondere al Capo dello Stato su cose stesse succedendo a Berlino la notte della caduta del Muro?

Così racconta Cossiga e non Grani:
“La notte della caduta del Muro di Berlino, ero presidente della Repubblica, la mia famiglia era negli Stati Uniti. Ero in casa con un cameriere e due agenti della sicurezza che mi facevano compagnia. Guardavo la tv quando ci fu l'annuncio che qualcosa stava accadendo a Berlino. Fui preso dall'emozione. E poi dai ricordi. Crollava un muro che avevo visto costruire. Letteralmente. Nel 1961, quando cominciarono a tirarlo su per dividere la Berlino orientale da quella occidentale, io ero Iì, intruppato, oggi si direbbe embedded, con gli amici della carovana elettorale di Eisenhower. Ho visto con i miei occhi trasportare e issare quei blocchi di cemento e sono anche stato uno dei primi ad attraversarlo, quel muro. Da qualche parte conservo ancora qualche filmino in bianco e nero, ma lo dico senza alcuna nostalgia. Anzi.
Alle prime notizie da Berlino, chiamai il Centro Situazioni del Quirinale, che allora, ma forse ancora oggi, era sistemato in un caveau. Non sapevano nulla. Chiamai il Ministero degli Esteri e il risultato fu lo stesso. Chiamai allora la sala situazioni dello Stato Maggiore della Difesa ed ebbi ancora risposte vaghe. Mi decisi, infine, a sentire direttamente il nostro Ambasciatore presso la DDR.
Si chiamava Indelicato ma era, a dispetto del nome, una cortesissima persona. «Guardi» mi disse «in effetti qualcosa sta avvenendo, ma non so ancora bene cosa. Ho mandato sul posto il mio ministro consigliere e il mio addetto militare per vedere con i loro occhi. Le farò sapere.» Mi telefonò mezz'ora dopo: «È tutto finito» disse. «Come sarebbe a dire è tutto finito?» insistetti. L'ambasciatore chiarì subito: «Un quarto d'ora fa, nel corso di una conferenza stampa, il sottosegretario alla Sicurezza ha detto che da quel momento si sarebbe potuto andare e venire dal Muro. E ora c'è una confusione indescrivibile. Sia i berlinesi orientali, sia i berlinesi occidentali, si sono riversati sul Muro, lo stanno picconando, tra un pò lo faranno a pezzi".



Perché avrei dovuto affidare a questa tipologia di sprovveduti il Sogno di Ipazia?
Perché avrei dovuto far nascere una Scuola di Intelligence come quella che è delineata nel documento “Preferisco di no” (domani lo inizierò a pubblicare a puntate) e chiedere aiuto, consigli, soldi a degli spergiuri?
Preferirei farmi morire d’inedia come il personaggio di Herman Melville, Bartleby lo scrivano, che, fino all’estreme conseguenze, ha saputo ripetere il suo: “Preferisco di no”.

Ribadisco: mi sono sempre dovuto procurare il denaro per i miei studi perché nel Paese era impossibile, tranne pochissime eccezioni, affrontare queste tematiche con chi istituzionalmente era preposto alla sicurezza dei cittadini.
Prima di questi “smemorati di Collegno” e del superlaureato Nicolò Pollari, ai vertici dei Servizi Segreti delle Forze Armate, per anni, si sono alternati, tranne poche mosche bianche di cui parleremo, piccoli e grandi mascalzoni tanto inadeguati a guidare le Istituzioni preposte alla sicurezza dei cittadini da aver scambiato il materassaio di Arezzo, Licio Gelli, per un massone e per un genio delle necessarie strategie di politica internazionale.
Alla ricerca della verità e in spirito di servizio, ho dovuto, anni addietro, conoscere il commendator Licio Gelli. Da quegli incontri a Villa Wanda, non cesso di chiedermi come sia accaduto che il Paese sia stato consegnato in tali mani e, soprattutto, come un’istituzione gloriosa e benemerita qual è la Massoneria possa essere stata, irreversibilmente, in Italia, sputtanata da un gaglioffo di quella risma.

In tutti i paesi del mondo la Massoneria è ciò che è.
Ad esempio negli Stati Uniti è certa solo per tre presidenti dei quarantaquattro eletti, la non appartenenza alla Massoneria: Mc Kinley, Kennedy, Nixon. Due furono uccisi e l’altro cacciato a calci nel sedere.
In Italia, sede del Papato, la Massoneria è ormai da decenni solo un groviglio di piccoli pensieri ed azioni finalizzate ad arricchimenti illeciti e alla manipolazione della vita democratica dei cittadini. Spesso in combutta con lo IOR e quindi con il Vaticano.

Persino il presidente emerito Francesco Cossiga ha preso fischi per fiaschi.
Infatti a suo tempo ha delineato una personale lettura delle vicende piduiste, interpretate soprattutto con riferimento alla dura contrapposizione tra Unione Sovietica e Stati Uniti d'America, particolarmente intensa proprio alla fine degli anni Settanta ed all'inizio degli anni Ottanta.

Scrive il presidente emerito:

"Io alla storia di Licio Gelli e della loggia massonica P2, almeno come è stata raccontatata, non ci ho mai creduto".

"La P2 non è stata un'invenzione di Gelli (bella scoperta!). La P2, che vuol dire Propaganda 2..., è quella del Gran Maestro, nata con la presa di Porta Pia. Fu creata per trasferirvi tutte le autorità politiche e militari che venivano a Roma"

"La mia ipotesi è questa. Io mi sono letto tutti i nomi della lista P2, tutti. Alcuni non li conosco, altri li conosco, però erano quasi tutti filo americani e anticomunisti. Quasi tutti fermi, anzi, fermissimi filo americani e anticomunisti. La chiave del giallo, secondo me, è proprio qui.
Per capire, è però inevitabile che io apra un'altra delle mie parentesi. Durante il secondo conflitto mondiale, nel governo svizzero c'era una corrente filo germanica. E il comandante in capo dell'Esercito svizzero tentennava di fronte all'eventualità di una resistenza a oltranza. Ufficiali e sottufficiali di diverso orientamento formarono allora una società segreta, si chiamava "Lega di Nidvaldo" (conosciuta anche come Gotthardverein), in ricordo della ferma lotta dei nidvaldesi contro lo straniero Napoleone. Giurarono, formalmente predisponendosi al tradimento, che se il governo federale, il loro governo, avesse concesso il passaggio ai tedeschi attraverso la Svizzera, loro si sarebbero opposti. Poi, avendo gli alleati vinto la guerra, il governo elvetico e il procuratore generale della confederazione si guardarono bene dal procedere contro di loro. Anche se si erano mobilitati segretamente per opporsi agli ordini del governo legittimo.
Perchè dico questo? Perchè quando ho letto la lista della P2 ho subito pensato che quella era la nostra Lega di Nidvaldo: non contro i nazifascisti, ma contro i comunisti. Lo dissi anche in un'intervista al "Corriere della Sera", ma Gelli volle smentirmi, non so perchè".


Perché?
Perché Gelli è, nel suo cuore, un nazista, antisemita e, quindi, oggettivamente un nemico della Massoneria. Come avrebbe mai potuto identificarsi con gli antinazisti della Lega di Nidvaldo. Considerò quella interpretazione di Cossiga, un’offesa.
Gelli non era solo un doppiogiochista fabbricatore di falsi attestati di appartenenza alla Resistenza ma, come ben sapeva il massone Carmine Mino Pecorelli, un nazista.

Caro Amalek sei in buona compagnia!!!!

Oreste Grani
 
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Oreste Grani
view post Posted on 12/9/2012, 10:33




LA CALUNNIA – IL PRESIDENTE DI IPAZIA PREVEGGENZA TECNOLOGICA È, DA SEMPRE, ALBERTO DE STEFANO

Dopo 69.855 parole dedicate a confutare la calunnia del perfido Amalek senza ricevere alcuna smentita a quanto ho dovuto raccontare del mio vissuto, ritengo sia ora di passare a fare i conti, come ho sempre annunciato, con il mio anonimo pugnalatore e con i suoi oggettivi complici.
Cominciamo a ribadire che io non sono e non sono mai stato il presidente di Ipazia Preveggenza Tecnologica scarl ne di Quadrato srl che è la società che la controlla.
Tantomeno sono stato l’amministratore o il maggior azionista.
Cominciamo a dire, senza tema di smentita, come decine di persone per bene potranno, nelle sedi opportune confermare, che il presidente di Ipazia Preveggenza Tecnologica è Alberto De Stefano. Dottore in legge e già negli anni trascorsi amministratore di più società.

Le lettere che Amalek e i suoi sodali possono cominciare a leggere e che pubblico di seguito sono state redatte dal sottoscritto come si evince dalla firma sottoscritta ed inviate presso gli indirizzi e-mail di Alberto De Stefano da personale dipendente delle suddette società che potrà essere in qualunque momento chiamato a testimoniare la verità della mia affermazione.


da: Ipazia Preveggenza Tecnologica [email protected]
a: Alberto DE STEFANO <[email protected]>
ccn: Ipazia Preveggenza Tecnologica <[email protected]>
data: 09 maggio 2012 12:33
oggetto: comunicazione
proveniente da: gmail.com

Le modalità con cui ti stai sottraendo ai tuoi doveri morali e di legge, mi obbligano a suggerirti, un’ultima volta, di rinsavire e cambiare atteggiamento.
Il disegno che hai artatamente costruito per non farti trovare, in queste ore difficili (rese ancora più difficili dalla tua fuga e per gli inganni che hai saputo mettere in atto) nella responsabilità di amministratore unico delle società (Quadrato S.r.l., Ipazia Preveggenza Tecnologica S.c. a r.l, Lighea S.r.l.) di cui hai preteso di essere, dal primo giorno, la guida formale e il maggior azionista, quanto prima sarà denunciato, rendicontato e testimoniato da decine di attendibili vittime.
Tutte persone che ritieni di poter abbandonare dopo averle indotte per anni, a ritenere che l’Immobilfin Tuscolana srl avesse le caratteristiche per ereditare e sostenere il progetto Ipazia a cui ho dedicato tutta la mia vita e tutti i miei beni. Ho venduto fino ai libri e gli argenti di famiglia come tu sai. Tutto questo è filmato, registrato, documentato e sarà consegnato alle autorità competenti.

Hai inoltre raggirato Roberto Sicuro mettendolo al tuo posto di amministratore dicendoci che era per pochi giorni e perché la legge non ti trovasse nel conflitto di interessi tra chi vendeva e chi comprava. Subito dopo hai “sottratto” l’oggetto stesso (Immobilfin Tuscolana) del nostro accordo. Lasciando, viceversa, i “cerini” a Roberto Sicuro.
Così come avevi precedentemente distratto le garanzie promesse ad Ipazia per comprare il 50% del bar Fagiani 1926. Acquisto “fraudolento” che hai perpetrato in associazione con Zoffoli ed altri, di cui risponderai nell’ambito della narrazione a cui mi preparo.

Sarò costretto a chiederti, nelle sedi opportune, il motivo (che ancora mi sfugge) delle garanzie fideiussorie messe per proteggere Fabrica Engineering e il tuo amico Cristiano Costanzo utilizzando la firma di Quadrato srl, società nata per garantire Ipazia e il suo sviluppo e non quel mascalzone di Costanzo.
Prima di una inutile guerra tra disperati (perché tale ti considero nel tuo autolesionismo), ti invito a pagare immediatamente il dovuto a Lighea srl per il lavoro di valorizzazione del tuo bene in via Salinatore 7. Lavoro grazie al quale hai potuto ottenere l’affidamento dal MPS dei 650.000 euro che ti hanno consentito il perfezionamento dell’acquisto insieme ai 150.000 euro che avevo convinto Mauro Ferretti a consegnarti.
Tutti questi sforzi ti sono serviti per affittare a una signora per 10.000 euro mese il bene destinato a divenire, per nostri accordi presi già dal gennaio 2009, CasaNova24. Come sarà facile dimostrare in tribunale.

Paga almeno le fatture a Lighea e questa boccata di ossigeno potrebbe non far collassare tutta la struttura.
Ti invito inoltre a metterti a disposizione dei commercialisti Musso e Mano per compiere gli atti di legge necessari alla liquidazione delle società di cui sei per me, da sempre, l’amministratore, presidente e maggior azionista (finchè vivo giurerò che Roberto Sicuro non ha nessuna responsabilità) consentendomi di continuare a lavorare per salvare le vite e i diritti dei nostri collaboratori.
Non ti consiglio, viceversa, di continuare a contare sul fatto che avendo io prioritariamente a cuore il continuare ad agire per Ipazia e i suoi collaboratori, non abbia la forza e il tempo per dedicarmi a te e richiamarti alle tue responsabilità civili, penali e umane.
Per un calcolo cinico, sapendomi senza un centesimo e senza strumenti di legge per perseguirti e non avendo più le condizioni minime di sopravvivenza per me e la mia famiglia, potresti pensare di riuscire a non pagare il prezzo dei tuoi tradimenti.
Non sarà così.

Oreste Grani

P.S. Già in data 12/10/2011 ti avevo sollecitato su questi stessi argomenti senza avere mai risposta da parte tua.



Ipazia Preveggenza Tecnologica
12/10/11



a Alberto, bcc: me

Caro Alberto,

sento la necessità di scriverti queste righe.

Ipazia nelle sue varie forme giuridiche (Ipazia PT, Ipazia Promos, Lighea, Orion, Rainbow, Quadrato) è entrata in una crisi di forma (non di sostanza) e si prepara, dopo lo stallo in cui vive (gli assegni che "ballano" nelle mani dei direttori delle banche), a precipitare al suolo, schiantandosi.
Le modalità con cui le varie società del Gruppo si sono, da mesi, dovute alimentare, come noi sappiamo, nascono dalla inadeguatezza finanziaria di Quadrato Srl cassaforte svuotata, sin dai primi giorni di attività, dalle garanzie prestate a Fabrica Engineering Srl e mai recuperate per abilità truffaldina di Cristiano Costanzo, pigrizia o nostra incapacità negoziale e giuridica. La tempistica delle tue dimissioni da Amministratore di Quadrato Srl e da Ipazia PT, dimissioni decise perchè non ti trovassi nella contraddittoria e incompatibile doppia veste di Amministratore anche di Immobilfin Tuscolana, è stata, a mio giudizio, decisa ed attuata con evidente eccessiva prudenza: distaccandoti formalmente da Quadrato e da Ipazia PT prima (mesi) che realmente fosse necessario e non diventando contestualmente Amministratore dell'Immobilfin Tuscolana (la nuova cassaforte decisa, da anni, perchè ereditasse tutto il disegno-progetto-patrimonio che per anni abbiamo costruito) ha generato una vacatio che ha spaventato tutti. Banche, soci e me stesso.

Le modalità con cui, alla fine, è stata acquistata la nuova società arca di Noè, si sono dimostrate una vera e propria trappola asfissiante per la povera Ipazia, i suoi diritti e le nostre stesse vite. Il piano imprenditoriale che avevamo, per anni, convenuto prevedeva che noi tutti atterrassimo in Immobilfin Tuscolana e, in poche ore, la trasformassimo nel luogo che per storia e garanzie potesse fare giustizia degli sforzi che tutti insieme avevamo compiuto. Per quello, tra l'altro, l'immobile posseduto da Immobilfin Tuscolana è stato studiato, progettato, valorizzato e ripulito unilateralmente dai nostri altri soci di fatto.

Adesso, la fotografia del nostro aereomobile in stallo è questa: in cabina di pilotaggio di tutta Ipazia PT e di Quadrato c'è, da mesi, Roberto Sicuro che doveva essere messo ai comandi solo e unicamente per i minuti necessari all'atterraggio. Ad attenderci in Immobilfin Tuscolana c'è un semisconosciuto amministratore Francesco Faustini (l'ho potuto in tre anni incontrare una sola volta) che è, paradossalmente, amministratore di una società acquistata dalla tua famiglia al 100% e di cui il Faustini non possiede più una sola azione, ma di cui, al tempo stesso, non ti ha lasciato il comando formale della società. Inoltre, uno sconosciuto finanziatore dell'ultima ora (finanziatore di una cifra irrisoria, € 100.000,00, rispetto al valore del bene e del denaro che hai versato per completare l'acquisto e dei sacrifici che tutti noi abbiamo fatto per far sopravvivere Quadrato e Ipazia PT) ti ha dettato delle condizioni capestro per cui, mi hai detto, ti ha inibito l'uso amministrativo della società fino a quando non gli avessi restituito il denaro prestatoti. Un suo diritto, ma, questo, ritengo corrisponderà alla morte di Ipazia. Altro che ventilato suicidio di Cristiano Costanzo. Nel frattempo, i Roberto Sicuro, i Walter Benzi, per nostro conto e per il bene comune avevano messo il loro onore e le loro firme a disposizione del nostro disegno. Dopo anni di straordinaria capacità di sacrificio e di intelligente previsione di mercato (la più difficile previsione che si potesse immaginare, il tracollo del sistema economico così come lo conosciamo da sempre) alcuni di noi si schianteranno al suolo.

Omissis…………………. per mettere ancora più al sicuro il rischio imprenditoriale implicito nel tuo acquisto dell'Immobilfin Tuscolana. Tutto questo accade nel giorno in cui altri da noi hanno risolto il problema di Ipazia International e si preparano a volare, anche per nostro conto, il 20/21 ottobre per chiudere gli accordi in Romania. Il denaro che ci sta mancando (€ 150.000,00) è immobilizzato solo da problemi di tipo giuridico-amministrativo: non abbiamo i bilanci in ordine, nel senso che non sono stati per tempo preparati e presentati e non abbiamo seguito le procedure di legge legate alla normativa fiscale. Ribadisco: i crediti, nettamente maggiori delle tensioni bancarie, non ci sono stati anticipati perchè le nostre garanzie sono utilizzate (e anche lì non abbiamo mai risolto il problema di rapporto con l'Unicredit) per coprire i debiti fatti a suo tempo, sicuramente prima del mio incontro con lui, da Cristiano Costanzo. Quelle garanzie che avevamo sognato (la storia dell'Immobilfin Tuscolana) sono, per il racconto che mi hai fatto, evanescenti o di difficile utilizzazione. Bisogna quindi agire con la massima rapidità perchè tutto non cessi.

1. Si deve incontrare il tuo finanziatore dell'ultima ora e liberarti, seduta stante, dai tuoi impegni.

2. Devi assumere il ruolo di amministratore in Immobilfin Tuscolana e presentare in banca la nuova compagine di fatto: Gruppo Ipazia Srl.

3. Si devono mettere garanzie al Monte dei Paschi di Siena (chiamerò tutti, Piccini compreso, ad aiutarci) perchè gli assegni di Walter Benzi non vengano protestati.

4. Si deve iniziare la vendita delle mie quote della società di fatto Gruppo Ipazia così come è stato delineato da anni.

5. Tutti i ricavi di queste vendite li metterò nella neosocietà (tranne una piccola cifra che ti è nota da tempo per non lasciare senza un centesimo mia moglie) per continuare il progetto imprenditoriale fino a quando sarà necessario.

6. Tu devi mantenere il controllo dell'Immobilfin Tuscolana tranne il 15% dovuto a Progetto Mutuo e questo passaggio di quote va perfezionato.

7. Dobbiamo riprendere il percorso condiviso e le modalità di alienazione delle quote decise secondo lo schema a suo tempo consegnato agli avvocati.
Nella cultura di Ipazia non ci possono essere bad companies. Dobbiamo salvare tutti e ricordare tutto. Viceversa, mi batterò lo stesso fino all'ultimo respiro, ma è doveroso dirti che al sedicesimo giorno di permanenza ininterrotta (giorno e notte) presso i nostri uffici, se non avessi …., a cui devo un futuro, le persone care che ci hanno sostenuto e i "ragazzi" che hanno fiducia in me, oggi mi arrenderei alla vita e al pensiero pitagorico che, opportunamente, ricorda che il comune destino di tutti è morire e che si deve essere pronti, con animo sereno, al venire e al dipartire delle ricchezze e degli onori.

Oreste Grani

P.S. Ricevo ………. una lettera relazione che mi lascia perplesso rispetto alla valutazione di Immobilfin Tuscolana. Anche di questo è urgentissimo che noi ci si parli.”


Rimango in attesa che il magistrato mi convochi per chiarire, in particolare, le frasi “…per comprare il 50% del bar Fagiani 1926. Acquisto “fraudolento” che hai perpetrato in associazione con Zoffoli ed altri” da me sottoscritta in data 9/5/2012 e “… le modalità con cui le varie società del Gruppo si sono, da mesi, dovute alimentare…” da me sottoscritta in data 12/10/2011.

Caro Amalek, continui ad essere in buona compagnia, oltre che di nazisti, anche di furbetti vigliacchi in fuga.

Oreste Grani
 
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36 replies since 14/2/2012, 11:44   14938 views
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